Dante e la filosofia

(Prof. Matteo D’Amico)

  1. Premessa[1]

E’ indubbio che Dante sia uno dei più grandi  poeti di ogni tempo, se non il più grande in assoluto, e che rappresenti, in ogni caso, il vertice insuperato della produzione letteraria sorta all’interno della civiltà cristiana.

Dante però non fu solo  poeta, ma anche filosofo e ciò a tre diversi titoli: innanzitutto ricevette una profonda formazione filosofica; in secondo luogo scrisse testi di filosofia (Il Convivio e il De Monarchia, ma anche nel De Vulgari Eloquentia non mancano pagine di altissima filosofia ed egli mostra di conoscere bene la concezione scolastica sull’origine del linguaggio; infine anche la giovanile Vita Nova non è certo un testo solo letterario, ma ha, al contrario, un profondo spessore filosofico); in terzo luogo la sua opera somma, la Divina Commedia, è attraversata tutta da numerosissimi  e profondi riferimenti a temi filosofici e teologici, in alcuni casi diretti ed espliciti, in altri casi solo impliciti.

Ora se sulla grandezza del Dante-poeta non si può nemmeno immaginare di  discutere, sul Dante-filosofo discutere è invece necessario, come è necessario  adottare uno sguardo molto più prudente, in quanto vi sono diverse ombre e più di una fra le sue posizioni filosofiche risulta non solo oscura, ma anche decisamente sospetta.  Occorre dunque evitare di cadere nell’errore di “beatificare” ingenuamente tutto Dante, sovrapponendo l’immensa grandezza della sua poesia alle sue posizioni  filosofiche, che a volte vanno invece decisamente rifiutate.

In questo breve studio tratteremo tre temi fondamentali: la formazione filosofica di Dante, alcuni nodi filosofici e, in particolare, quello rappresentato dalla figura di Sigieri di Brabante nel Paradiso, il rapporto con il pensiero tomista.

 

  1. La formazione filosofica di Dante

Dante ancora bambino conobbe Beatrice, l’amore per la quale segnò tutta la sua vita, influenzando profondamente anche le sue composizioni poetiche stilnovistiche, la Vita Nova e tutta la sua produzione letteraria successiva. Sul piano formativo viene avviato all’apprendimento delle discipline del Trivio e del Quadrivio e, successivamente, pare accertato che abbia frequentato, fra il 1287 e il 1288,  lo Studium di Bologna, vivendo così un primo, profondo incontro con il pensiero scolastico.

Nel 1290 Beatrice, che si era nel frattempo sposata, muore giovanissima e Dante (che a vent’anni si era sposato con Gemma Donati) ne rimane profondamente scosso, uscendo da un profondo stato di prostrazione grazie allo studio di due opere filosofiche fondamentali: il De consolatione philosophiae di Severino Boezio e il De amicitia di Cicerone; inoltre inizia a frequentare lo Studium domenicano di Santa Maria Novella, dove si impadronisce delle opere di sant’Alberto Magno (1206-1280), che sarà il suo vero grande maestro, superiore come influenza anche al dottore angelico; approfondisce anche la conoscenza delle opere  di san Tommaso d’Aquino (1225-1274), in particolare la Summa Theologiae e la Summa contra gentiles e segue l’insegnamento di fra’ Remigio de’ Girolami (1247-1319), un domenicano che era stato allievo di san Tommaso a Parigi e che operava come docente appunto nello Studium di Firenze e le cui lezioni Dante potrebbe avere seguito fino all’inizio dell’esilio (1302), anche se con alcune limitazioni[2]. Va notato che fra’ Remigio assurse a cariche molto importanti nell’ordine domenicano e giunse ad esercitare una considerevole influenza sulla vita politica di Firenze, come testimoniato dai suoi cinque sermoni Ad priores civitatis, scritti nel corso degli anni Novanta, nei quali sviluppa una visione politica mirata a favorire il bene comune, sulla lotta fra le fazioni.

Il pensiero politico del De’ Girolami, tutto imperniato su una attenta rilettura del pensiero etico e politico di Aristotele, è molto probabile che abbia influenzato Dante, con la cui visione politica ha più di un’affinità: ad esempio fra’ Remigio nega che Cristo abbia trasmesso al suo Vicario la sua potestà universale su tutti i principati della Terra: il papa ha ereditato solo una potestà spirituale, che lo rende garante dell’unità morale del genere umano e gli dà un potere sull’ordine temporale “non principaliter et directe”.  In questa prospettiva, definibile come “teocrazia debole” o attenuata, la donazione di Costantino (che da fra’ Remigio, come da Dante, è ritenuta perfettamente autentica)  è considerata un evento funesto per la Chiesa, la causa di un suo legarsi negativamente alla sfera temporale. Su queste basi non può che essere vista come positiva l’ipotesi della restituzione  del patrimonio di san Pietro all’Impero[3].

Va però notato che Dante non si limitò a frequentare lo Studio dei domenicani, ma frequentò anche lo Studio dei francescani di Santa Croce: qui regnava la tradizione agostiniana e il pensiero di san Bonaventura (1221-1274), che aveva rappresentato uno dei vertici della Scolastica antiaristotelica.  Nello Studium dei minori era però presente anche l’influenza dei “maestri oxoniensi”, ovvero dei francescani di Oxford, che avevano iniziato a flettere la filosofia nella direzione che sfocerà con Duns Scoto (1265-1308) e con Guglielmo d’Occam (1288-1347) nella crisi della Scolastica e nell’inizio della “via moderna”.   Ma, cosa ancora più significativa, il clima culturale che regnava presso lo Studium di Santa Croce, era segnato profondamente anche dal pensiero del frate francescano  Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298), grande pensatore della Scolastica del XIII secolo, che fu però al centro di intense dispute e polemiche in quanto profondamente coinvolto nel movimento degli “spirituali[4], francescani che volevano venissero riformati sia l’Ordine francescano, sia la Chiesa intera nella direzione di una povertà assoluta e secondo le profezie di Gioacchino da Fiore[5].  E’ quasi sicuramente dall’influenza culturale  che ebbe a Firenze questo francescano che Dante mutuò i tratti “gioachimiti” del suo pensiero, soprattutto per quanto riguarda l’attesa salvifica di un imperatore capace di instaurare il regno della giustizia e della pace universali (una forma di utopismo millenarista) e il suo attacco alla Chiesa come potenza anche temporale. Esiste infatti una linea interpretativa che ritiene fondatamente che il modello profondo della Divina Commedia, sia sul piano teologico e spirituale, che sul piano dell’architettura delle tre cantiche, sia la fondamentale opera  di Pietro di Giovanni Olivi Lectura super Apocalypsim,  un testo che ebbe un’enorme fortuna critica nel tardo Medioevo, e che pare aver influenzato segretamente anche l’eretico inglese John Wycliff  (1330-1384), il cui pensiero, per il tramite del teologo boemo Jan Hus (1371-1415), sta alla base delle deviazioni eretiche di Lutero[6].

Un altro francescano che operò a Firenze, presso Santa Croce, probabilmente fra il 1285 e il 1289, è Ubertino da Casale (1259-1330 ?), capo degli Spirituali e autore di un testo fondamentale, l’Arbor Vitae, che Dante conobbe  sicuramente. La fine di questo influente francescano è avvolta dall’oscurità: infatti venne infine accusato di eresia e di ribellione alla Santa Sede e fuggì da Avignone nel 1325, rifugiandosi, pare, presso l’imperatore scismatico Ludovico il Bavaro[7]. Nel testo prima citato, l’Arbor Vitae, nei capitoli 7 (Jesus despectus iterum) e nel cap. 8 (Jesus falsificatus) Ubertino “distingue fra Chiesa carnale e Chiesa spirituale, respinge la prima come la grande prostituta di Babilonia e dichiara che dopo l’abdicazione invalida di Celestino V, la cui rinunzia fu ottenuta con malizia e frode dal card. Caetani e dai suoi complici , non ci fu più papa legittimo.     Bonifacio VIII è la mala bestia dell’Apocalisse, Benedetto XI l’altera bestia e Clemente V sarà per opprimere la Sede Apostolica, fino a quando venga colui che siederà legittimamente e riformerà tutto[8] .

Non c’è bisogno di far notare come questi temi, hanno profonde assonanze con l’attacco di Dante al papato e, in particolare, a Bonifacio VIII[9].

 

  1. La figura di san Tommaso d’Aquino nella Divina Commedia e il mistero della celebrazione di Sigieri di Brabante

Poiché per la concezione filosofica della politica  di Dante rimandiamo all’articolo già uscito su questa rivista[10], ci soffermeremo ora sulla figura di san Tommaso d’Aquino nella Divina Commedia, analizzando i principali passi in cui egli compare direttamente.

La figura di san Tommaso occupa ben tre canti (il X, l’XI e il XIII) e assume quindi contorni che da soli dicono tutta l’importanza che il sommo poeta attribuiva al grande domenicano, presentato come exemplum perfetto  di frate, di filosofo e di santo.  Il nome del sommo teologo  era già comparso nel Purgatorio (canto XX, vv.68-69) dove si descrive la sua morte come dovuta alla volontà di Carlo I d’Angiò (“e poi ripinse al ciel Tommaso , per ammenda”), secondo un’interpretazione leggendaria -oggi del tutto respinta dalla critica- che attribuiva questo omicidio o al timore di re Carlo di essere esposto alle critiche di san Tommaso, per il suo cattivo operato in Italia, o al timore del re che la sapienza di san Tommaso avrebbe ben presto portato alla pacificazione degli scismatici greco-ortodossi con la Chiesa Cattolica al Concilio di Lione, presso il quale stava recandosi san Tommaso quando si ammalò e morì, eventualità che in quel momento era sgradita al re francese per motivi di opportunità politica[11].

La cantica del Paradiso vede san Tommaso comparire nel X canto, dove è cantato il cielo del Sole, che ospita coloro che in Terra rifulsero per sapienza cristiana.  Qui bisogna ricordare, per capire la scelta dei sapienti fatta da Dante, che  egli  “non accetta la distinzione agostiniana fra ‘sapienza’ e ‘scienza’, quella volta al divino, questa all’umano; per lui la sapienza “assomma due aspetti, quello religioso-contemplativo, di ascendenza platonico-agostiniana, e quello speculativo-razionale di Aristotele” (…); comprende dunque sia la contemplazione, sia la scienza, e nell’ambito di quest’ultima tutte le scienze, non solamente le filosofiche-teologiche. Ciò basta a spiegare nelle due corone, accanto a filosofi-teologi, anche di dotti, chiamiamoli così, profani[12].

Si noti innanzitutto il fatto che l’onore che Dante concede a san Tommaso di essere colui che presenta gli altri dotti dimostra come lo considerasse il più grande fra i sapienti, ed è sempre da ricordare il particolare che, mentre Dante scrive, il grande Domenicano non è ancora stato proclamato santo (lo sarà infatti solo nel 1323 da parte di papa Giovanni XXII, due anni dopo la morte dell’Alighieri). Ora la grande stranezza del X canto, sempre notata dagli studiosi della Divina Commedia, è rappresentata dal fatto che a un certo punto fra i sapienti viene presentato Sigieri di Brabante[13]  (1240-1282), il più importante averroista latino, contro il quale san Tommaso scrisse il suo famoso studio De unitate intellectus contra averroistas.  Siamo quindi di fronte a un enigma apparentemente insolubile: capire il senso di questa celebrazione di quello che fu, sul piano intellettuale, un nemico della filosofia tomista. Ecco i versi danteschi (Par., X, 133-138):

Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,

è ‘l lume d’uno spirto che ’n pensieri

gravi a morir li parve venir tardo:

essa è la luce etterna di Sigieri,

che, leggendo ne il Vico de li Strami,

sillogizzò invidiosi veri”.

 

Ed eccone una parafrasi:

Costui, dal quale il tuo sguardo torna a me (S. Tommaso che ti parlo), è la luce di un’anima alla quale, immersa com’era in gravi (opprimenti) pensieri, la morte sembrò giungere troppo tardi: è l’anima ormai giunta alla vita eterna di Sigieri di Brabante, il quale, insegnando in “via della paglia”[14] (a Parigi) sviluppò dimostrazioni sillogistiche che gli procurarono invidie e odi”.

 

Prima di cercare di dipanare la matassa rappresentata da questa beatificazione dantesca di Sigieri osserviamo che già è difficile comprendere il senso dei “gravi pensieri” dai quali è oppresso Sigieri. Sono possibili due interpretazioni: la prima vede in questi pensieri le ansie che il filosofo dovette provare in virtù del procedimento inquisitoriale a cui fu sottoposto a Parigi, del suo essere bloccato a Orvieto presso la corte papale, della sua situazione giuridica in generale. La seconda interpretazione vede invece questi gravi pensieri consistere nel penoso dubbio che la dottrina della “doppia verità” si presume suscitasse nell’animo del filosofo, stretto fra la necessità della fede da un lato, e l’autonomia della ragione dall’altra.

La domanda però rimane: perché Dante celebra  proprio Sigieri, fra i tanti filosofi e teologi di sicura dottrina che avrebbe potuto “beatificare”?  E’ interessante notare che anche nel canto XII vedremo San Bonaventura celebrare Gioacchino da Fiore, autore che il grande santo francescano aveva in realtà attaccato; vi è un perfetto parallelismo fra il caso S. Tommaso/Sigieri e il caso San Bonaventura/Gioacchino:  Dante sembra divertirsi a rovesciare nel suo Paradiso le più grandi inimicizie intellettuali nel loro oppposto.

 

  1. L’interpretazione di Gilson del caso Sigieri

Nel 1939 il grande filosofo francese Etienne Gilson pubblica il volume Dante e la filosofia, che verrà successivamente più volte riedito[15].  In questo testo l’autore dedica un’ampia sezione ad affrontare  il problema che abbiamo sopra enunciato, ovvero la figura di Sigieri nel Paradiso, e le ragioni di questa scelta.

Secondo Gilson Dante ha simpatia per Sigieri (senza che ciò significhi che egli è un’averroista) perché ci tiene a sottolineare, come aveva già fatto nel Convivio, che la ragione è autonoma nel suo ordine, con Aristotele come sua suprema guida, allo stesso modo nel quale l’Imperatore lo è nel suo, in una assoluta indipendenza dal papato, relegato a essere un’auctoritas limitata esclusivamente al campo spirituale. Sigieri  incarnerebbe perfettamente questa distinzione di piani che, se rispettata,  sarebbe garanzia di giustizia e di felicità su tutta la  Terra.  Dante non poteva ignorare la condanna che nel 1277 colpisce Sigieri, ma nella Divina Commedia vale sempre una regola: “la realtà storica dei personaggi di Dante non ha diritto di intervenire nella loro interpretazione, se non in quanto è richiesta dalla funzione rappresentativa che dante assegna loro e per la quale li ha scelti[16].  Il che è come dire che il Sigieri di Dante è un puro simbolo, atto a rappresentare appunto la separazione ragione/fede e Impero/Chiesa alla quale egli anelava come via per ritornare alla pace e alla giustizia; e va notato che le due “separazioni” sono per Dante strettamente correlate, soprattutto nel Convivio:  la sfera della ragione  naturale, con Aristotele come imperatore, e la sfera politica, con l’Imperatore  come garante della sua unità e autonomia, possono vedere l’uomo raggiungere la sua piena felicità terrena, a condizione che la Chiesa non pretenda di avere alcun potere  in temporalibus, che diventi una Chiesa “spirituale”.

Bonifacio VIII deve trovarsi nell’Inferno di Dante per la medesima ragione per cui Sigieri deve trovarsi nel Paradiso di dante: difatti l’errore che condanna l’uno all’Inferno era la controparte della verità rappresentata dall’altro, a pieno diritto, in Paradiso. L’errore è che lo spirituale abbia dei diritti sul temporale; la verità è che la teologia, sapienza spirituale della fede, non ha autorità sull’ordine temporale attraverso la filosofia. Conosciamo dunque almeno due delle verità che spingono Dante a lodare Sigieri per averle insegnate: la filosofia è una scienza della ragione naturale pura, e la teologia, sapienza della fede, non ha autorità sulla morale naturale  né sulla politica fondata da questa morale[17].  Insomma per Dante l’indipendenza dell’Impero dalla Chiesa, postula l’indipendenza della filosofia dalla teologia, la loro separazione netta.

Va notato inoltre che non è un caso che Sigieri sia collocato nel contesto di canti tutti dedicati, in modo particolare, a celebrare la purezza dell’ordine spirituale contro le derive temporali e la sete di ricchezza e potere che hanno ferito sia i singoli ordini religiosi, sia la Chiesa tutta.  Ma tutto ciò non significa, secondo Gilson, che dante ammetta e creda la dottrina per la quale Sigieri fu condannato nel 1277.  A Dante insomma non interessa l’averroismo in quanto tale, ma preme soprattutto garantire l’autonomia della sfera politica da quella religiosa, e intuisce correttamente che ciò è possibile solo se la filosofia non è pensata come ancilla theologiae, ma è resa separata e autonoma rispetto ad essa[18].   E’ per noi chiaro come qui Dante si allontani pericolosamente dalla tradizione tomista e renda impossibile l’idea stessa della regalità sociale di Cristo, perché tutta la sua visione, come chiarito soprattutto nel De Monarchia, postula due fini per l’uomo: un fine terreno, ovvero la felicità naturale; un fine soprannaturale e spirituale, ovvero la salvezza eterna delle anime e la loro beatitudine celeste.   Ma nella sua visione i due ordini e i due fini sembrano essere separati e distinti, come se riguardassero sfere non comunicanti.  Invece,  poiché l’uomo è profonda unità ontologica di anima e corpo, è chiaro che i due fini devono essere l’uno subordinato all’altro, così come è chiaro che il primato dello spirituale, dopo il peccato originale, si giustifica anche con il fatto che, senza l’ausilio della grazia e della vita sacramentale, anche il fine della felicità naturale non potrà mai essere raggiunto[19].  Suscita un po’ di stupore constatare che a Dante sfugge una cosa in fondo così semplice: che fine terreno e fine soprannaturale non possono essere separati o considerati autonomi; che, data l’importanza infinitamente più grande della salvezza eterna delle anime, sulla transeunte felicità terrena, l’ordine temporale deve lasciarsi ammaestrare e correggere dall’ordine spirituale e dare corso a leggi che favoriscano la virtù e puniscano il vizio, e spingano tutti a rispettare la legge naturale.

Forse anche il fatto che Dante sembra anticipare il tema massonico, liberale e cavouriano della “libera Chiesa, in libero stato” ha concorso a mettere ola Divina Commedia al centro dell’insegnamento della scuola di stato postunitaria? E’ una domanda legittima[20].

 

 

 

 

 

  1. Cenni conclusivi al rapporto di Dante con il pensiero tomista

 

Concludiamo con alcuni cenni molto rapidi al complesso rapporto di dante con il pensiero di san Tommaso[21].  La prima considerazione da fare è la più importante: la vita scorre quasi integralmente nel pieno della disputa molto accesa che si scatenò attorno e contro il tomismo dal 1277 (anno della condanna da parte del vescovo Tempier di Parigi di circa 219 tesi di aristotelici, fra le quali si trovano circa 15 proposizioni che possono essere attribuite anche a San Tommaso), al 1323, anno della canonizzazione del santo domenicano.  Gran parte degli attacchi contro san Tommaso furono dovuti allo zelo di membri dell’ordine francescano.  In risposta a questi attacchi l’Ordine Domenicano  rispose con le decisioni formali dei capitoli generali dell’Ordine degli anni 1278, 1279 e 1286 nelle quali il tomismo veniva assunto come filosofia e teologia ufficiale dell’Ordine. Dunque occorre ricordarsi che il san Tommaso con cui entra in contatto Dante non è quello della neoscolastica di fine Ottocento/inizio Novecento, ma un autore al centro di terribili tensioni interpretative. Il poeta respirò questa atmosfera, anche se in nessun passo della sua opera si espresse mai formalmente sul tomismo in quanto tale.

Il lungo scontro  contro o a favore della filosofia di san Tommaso vede opporsi frontalmente i due ordini, francescano e domenicano e i canti X, XI, XII e XIII  del Paradiso vanno letti sullo sfondo di questa battaglia, con Dante  che sembra lottare  per mostrare come, se si guarda al fine comune per il quale i due ordini sono nati, occorrerebbe vedere la possibile amicizia e vicinanza fra Francesco e Domenico, Tommaso e Bonaventura.

Dante si firma filosoficamente immergendosi nello studio di Aristotele e giovandosi, probabilmente, dei grandi commenti di san Tommaso alle opere dello Stagirita. Per Forster però non bisogna esagerare la conoscenza che Dante aveva  dei testi tomisti diversi da quelli dei commentari ad Aristotele.

Certo è anche che su numerose delicate questioni filosofiche e teologiche Dante prese posizioni più vicine a san Alberto Magno.  Ciononostante per il sommo poeta san Tommaso prova la più grande stima per san Tommaso sia in quanto santo (nonostante non si fosse ancora concluso il processo canonico quando Dante morì), sia in quanto filosofo e teologo. Nel campo della dottrina sacra s. Tommaso è la massima autorità, ma è ancvhe maestro di metodo e di correttezza epistemologica, come viene chiarito in Paradiso XIII, dove il grande domenicano è presentato nelle sue doti di finezza, prudenza e capacità di discernimento intellettuale.

Il debito di Dante verso san Tommaso spicca soprattutto nel caso dello studio di Aristotele, studio che il fiorentino condusse essenzialmente giovandosi dei grandi commenti tomisti, tanto che a volte cita Aristotele, senza accorgersi di stare citando la parafrasi o la presentazione tomista del passo aristotelico.

Nella netta distinzione che D. fa tra ambito di ragione e ambito di fede, tra filosofia e teologia e, al contempo, nella sua fiducia nell’armonia e nell’accordo fondamentale tra questi diversi modi di apprendere il vero; nel suo vigoroso sentimento – per lo meno nella Commedia – dell’unità corpo-anima dell’uomo; nel suo approccio intellettualistico al problema del libero arbitrio (ma Nardi riferisce questa concezione dantesca piuttosto a fonti averroistiche, cfr. Nel mondo di D., cit., pp. 287-303), nella gerarchia delle facoltà umane e nella natura della beatitudine finale; in tutti questi punti, il pensiero di D. sembra riflettere, direttamente o no, l’influenza di Tommaso[22].

Dunque si può parlare, senza tema di errori, di un tomismo di fondo di Dante, di un tomismo che permea profondamente soprattutto la Divina Commedia perché non va dimenticato che anche Dante ha una intensa evoluzione culturale, e il Dante della Vita Nova non è il Dante del Paradiso. In questa fondamentale fedeltà a san Tommaso non mancano però spunti di fortissima indipendenza, di profonda differenziazione: così ad esempio in campo politico, in particolare nel De Monarchia, la teoria dantesca dei due fini, temporale e eterno (ovvero politico e escatologico), pensati come autonomi e quasi separati, tanto da implicare una profonda indipendenza dell’Imperatore rispetto al Papa, e a spingerlo, di fatto, verso una concezione spiritualistica della Chiesa, è quanto di meno tomista ci possa essere. Allo stesso modo il collocare Virgilio e altri antichi sapienti nel Limbo, anche se elemento necessario all’economia e alla simbologia del poema, è cosa sicuramente errata da un punto di vista tomista, in quanto per l’aquinate, senza l’ausilio della grazia, è impossibile per l’adulto non peccare mortalmente. Il limbo è riservato ai bambini morti senza battesimo prima dell’età della ragione (che non possono avere commesso peccati attuali), ma l’adulto o è all’Inferno o è in Paradiso, non può in ogni caso essere nel Limbo (perché, appunto, ciò postulerebbe di essere vissuto fino all’ultimo giorno della sua vita senza mai peccare mortalmente).

Su molti altri  aspetti come l’angelogia, l’influenza degli astri sugli uomini, il rapporto fra causa prima e cause seconde nella creazione e su molti altri argomenti vi sono differenze ora più sottili, ora più marcate fra Dante e san Tommaso; né va dimenticato, a tal proposito, che san Tommaso non può essere per Dante ciò che è, ad esempio, per noi: mentre Dante lo studia imperversa ancora una durissima battaglia contro la grande e geniale novità del sistema tomista; oggi a noi è molto più chiara l’immensa -ma si potrebbe dire più esattamente smisurata–   grandezza del genio dell’aquinate, che sembra non solo durare e resistere, ma crescere di giorno in giorno, a misura che  si constatano le rovine della cultura, della filosofia e della teologia che hanno avuto l’ardire di abbandonare il fondamento invincibile del suo pensiero. Dante non poteva avere la misura completa della grandezza del sommo domenicano. Inoltre per noi Dante è essenzialmente poeta e, in quanto poeta, dobbiamo concedergli la libertà di usare sia la filosofia, che la teologia, con quel grado di libertà e di indipendenza necessario a volte a perseguire, appunto, l’effetto poetico ricercato.  Sarebbe assurdo e anche ridicolo pretendere di trovare nella Divina Commedia l’equivalente di una grande Summa scolastica.  Semmai dobbiamo provare stupore per come Dante, con un’essenzialità e una sinteticità straordinarie riesca a esprimere densissimi concetti filosofici e teologici, problemi di una gravità e complessità incomparabili, in pochi, luminosissimi e indimenticabili versi poetici che, come pochi altri, sfidano lo scorrere del tempo.

Forster però mette in luce in ogni caso gli aspetti più critici dell’indipendenza poetica e filosofica di Dante,  aspetti  che purtroppo non si può negare siano fra i più importanti della grande rivoluzione concettuale tomista:

“E c’è poi, da ultimo, l’aspetto negativo di questa stessa indipendenza. Quanto di più specificamente caratteristico e originale c’è nella metafisica e nell’antropologia di T., non trova che un pallido riflesso, seppure lo trova, nel sistema dantesco. La chiave della metafisica di T. sta nella distinzione tra essenza ed esistenza (esse) nelle creature, e nella loro identità in Dio ” ipsum esse subsistens ” (Sum. theol. I 3 4, 13 11, Cont. Gent. I 22), mentre la chiave della sua antropologia sta nell’originale concezione dell’intellectus agens, vale a dire della funzione più caratteristica dell’intelletto umano in quanto tale, consistente nel rendere intelligibile la materia sensibile (cfr. Sum. theol. I 79 3-4, 84 6, 54 4, 55 2). Ebbene, quanto all’intellectus agens, D. arriva al punto di non citarlo neppure, mentre l’unica volta che usa della distinzione tra esse ed essentia (Ep XIII 56-61) è per farne un impiego marginale e incidentale. La nozione di esse come ” proprius effectus Dei ” fu ben lontana dal governare la teologia naturale di D. nella misura in cui ne fu governata quella di T. (cfr. Sum. theol. I 8 1, 45 5)[23].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Saggio pubblicato sulla rivista “La Tradizione Cattolica”, Anno XXXII,  n° 2 (117), 2021, pp. 5-21 (c/o  Priorato “Madonna di Loreto”, Fraz. Spadarolo/Rimini)

[2]In veste di lettore il G. potrebbe aver avuto tra i suoi uditori Dante: così suggerisce il Convivio (II, 12, 17), ove l’Alighieri racconta che iniziò ad apprendere la filosofia “nelle scuole delli religiosi” da identificare anzitutto, nella Firenze dell’epoca, con lo Studium domenicano di S. Maria Novella e con quello minoritico di S. Croce. Questa formazione filosofica dantesca è collocata, per tradizionale ma poco rigorosa interpretazione d’un cenno cronologico contenuto nel Convivio, tra il 1291 e il 1295, mentre è corretto ammettere che possa esser durata fino al momento dell’esilio (1302). L’eventualità che l’Alighieri fosse uditore delle lezioni del G. deve esser vagliata anche alla luce delle norme che regolavano l’accesso ai corsi tenuti negli Studia domenicani, le quali testimoniano da un lato copiose interdizioni per i laici ad assistervi e, dall’altro, questioni disputate al cospetto di secolari” (da : https://www.treccani.it/enciclopedia/remigio-de-girolami_(Dizionario-Biografico)

[3] Emilio Panella, «Dal bene comune al bene del comune. I trattati politici di Remigio dei Girolami nelle Firenza dei bianchi-neri», Memorie Domenicane 16 (1985) 1-198.

[4] Questa corrente francescana radicale operò circa dal 1274 al 1318, in particolare in Italia centrale (Marche e Toscana) e in Provenza. Con atteggiamento estremistico e contro le decisioni papali essi portavano alle estreme conseguenze la regola francescana sul tema della povertà, aderendo con vero fanatismo alle “profezie” gioachimite e mirando a dare vita a un ordine separato dagli stessi minori. Il movimento ebbe il suo epicentro nelle Marche, dove un gruppo di spirituali venne condannato come eretico al carcere (1280). Inviati successivamente in Armenia come missionari, nel 1294 ottengono di essere sottratti all’obbedienza, cambiano l’abito e fanno sorgere un nuovo ordine col nome di Poveri eremiti di papa Celestino. Sotto Bonifacio VIII perdono i loro privilegi e tornano ad essere perseguitati e ripetutamente processati. Analoghe vicende ebbero gli spirituali di Provenza, il cui esponente più influente fu appunto Piero di Giovanni Olivi che pare certo abbia dimorato anche a Firenze.

La vicenda degli Spirituali, dopo alterne vicende, si concluse con un processo inquisitoriale che vide quattro di loro consegnati al braccio secolare il 7 maggio 1308. Nel 1317 la Bolla Sancta Romana dichiarava eretici gli Spirituali d’Italia legati a Angelo Clareno e nel 1318 la Bolla Gloriosam Ecclesiam dichiarava eretici gli Spirituali di Toscana.

In seguito a queste bolle gli Spirituali si unirono al movimento dei Fraticelli.

(cfr. Enciclopedia Cattolica, vol. XI, pp. 1151-1153).

[5] Gioacchino da Fiore (1130-1202), monaco, mistico e teologo, fu prima cistercense, poi lasciò l’ordine e fondò una nuova congregazione chiamata “florense”, che ebbe una certa diffusione in alcune regioni italiane, per poi decadere ed essere infine riassorbita  nell’ordine cistercense stesso. Figura molto discussa, influenzò profondamente la corrente ereticale dei francescani Spirituali e il movimento dei Fraticelli e, con la sua teologia della storia millenaristica e con il mito di un’età dello Spirito Santo, esercitò un enorme influsso sia in campo teologico (in modo particolare sull’ordine francescano), sia in campo politico.  Il suo pensiero presenta aspetti gnostici e millenaristi.  E’ interessante ricordare il suo influsso, oltre che su Dante (Paradiso, XII), probabilmente per la mediazione dell’insegnamento a Firenze di fra’ Pietro di Giovanni Olivi, su Ruggero Bacone, Occam, Marsilio da Padova, Savonarola; ma la sua influenza attraversa tutta la storia moderna e segna in particolare il modernismo, con un momento di esplosione durante e dopo il Concilio Vaticano II. E’ autore caro a tutti i nemici della “Chiesa costantiniana”, del potere temporale della Chiesa,   della centralità del dogma, dell’idea che la verità sia immutabile e non possa esserci alcuna radicale rottura o novità teologica. Le profezie di Gioacchino sono state a più riprese utilizzate come spunto per attaccare la Chiesa e la sua corruzione.

 

[6] R. MANSELLI, A proposito del cristianesimo di Dante: Gioacchino da Fiore, gioachimismo, spiritualismo francescano (1975) in IDEM, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali,  a  cura  di  P.  Vian,  Roma  1997  (Istituto  Storico  Italiano  per  il  Medio  Evo.  Nuovi Studi Storici, 36)

 

[7] E’ significativo che Dante citi Ubertino da Casale nel Paradiso (canto XII, vv. 124-126) per prenderne le distanze, condannando sia la sua tendenza rigoristica, sia l’opposta tendenza lassista  incarnata dal superiore dell’ordine francescano Matteo d’Acquasparta (nei versi citati San Bonaventura biasima le degenerazioni  degli spirituali e dei lassisti: “Ben dico, chi cercasse foglio a foglio/nostro volume, ancora troveria carta u’ leggerebbe:   “I’ mi son quel ch’i’ soglio”;/ ma non fia da Casal né  d’Acquasparta,/ là onde vegnon tali a la scrittura,/ ch’uno la fugge e l’altro la coarta”.  La parafrasi è la seguente: chi considerasse l’ordine francescano (nostro volume), troverebbe ancora quaslche frate fedele alla regola,

[8] Enciclopedia Cattolica, vol. XII, p.662

[9] Dunque Dante segue l’Olivi, non Ubertino. Ma quest’ultimo svolse un ruolo fondamentale nella decisione di scrivere la Commedia, perché fu colui che diede a Dante la Lectura super Apocalipsim affinché ne facesse cosa nuova in versi. Se certo non sussiste un documento che attesti la consegna, esistono molti indizi al riguardo. Dopo la morte dell’Olivi la Lectura si diffuse subito in Italia (nella tradizione manoscritta, il maggior numero di testimoni – 12 su 16 – è di area italiana); nel 1305 (marzo-settembre) Ubertino da Casale l’aveva con sé a La Verna mentre scriveva l’Arbor vitae; nel 1306 (6 ottobre) Dante è in Lunigiana come procuratore della pace con il vescovo di Luni per conto dei Malaspina; nel 1307 è in Casentino, da dove invia (Epistola IV) a Moroello la canzone “Montanina”; nello stesso anno Ubertino, diventato cappellano del cardinale Napoleone Orsini, opera per il ritorno a Firenze degli esiliati, azione che fallisce dopo il mancato scontro a Gargonza tra i Neri e le truppe del Cardinale (ospite dei conti Guidi). Dunque negli stessi mesi, e in luoghi contigui se non coincidenti, Dante e Ubertino lavoravano per la pace, e si può ben immaginare quanto l’attività del frate stesse a cuore al poeta. Fu quella l’ultima possibilità che Dante ebbe di rientrare a Firenze prima dell’inizio della stesura della Commedia (…).

Questo “totale commovimento etico-religioso” fu provocato dalla Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Da Ubertino, che probabilmente fu ad esso strumentale, Dante si staccò subito, ancorando il suo lavoro intertestuale alla Lectura e non all’Arbor vitae e perfino sopravanzando quest’opera nel duro giudizio su Bonifacio VIII, poi esteso a Clemente V e a Giovanni XXII (due papi sui quali Ubertino tace). Nel corso della stesura del Paradiso (dal 1316 ?), dopo le lacerazioni interne dell’Ordine francescano aggravatesi con il Concilio di Vienne (1311-1312), lo riprovò con le parole di Bonaventura, maestro dell’Olivi, la cui luce risplende nel cielo degli spiriti sapienti insieme ad altre fra le quali ci sono Riccardo di san Vittore e Gioacchino da Fiore, le due maggiori auctoritates citate nella Lectura super Apocalipsim” (Alberto Forni, Ubertino da Casale e Dante: dallo spiritualismo francescano al sacro umanesimo, https://www.danteolivi.com/ubertino-da-casale-e-dante-dallo-spiritualismo-francescano-al-sacro-umanesimo/)

 

 

[10] M. Terlizzi, Il pensiero politico di Dante dal De Monarchia alla Commedia, La Tradizione cattolica, n° 1, 2021, pp. 36-44

[11] Nel 1261 Michele VIII Paleologo aveva riconquistato Costantinopoli, ponendo fine all’Impero Latino d’Oriente. Temendo un contrattacco da parte angioina cercò di riavvicinarsi a Roma per rendere più forte la sua posizione. Dopo alterne vicende l’imperatore e parte dell’episcopato greco accettarono le condizioni poste  da Roma e giurarono la professione di fede  di papa Gregorio X  (febbraio 1272). A questo punto venne indetto il Concilio di Lione dove, il 6 luglio 1274, i rappresentanti bizantini giurarono obbedienza al papa e riconobbero  la professione di fede cattolica.  Ma la pacificazione fu di breve durata: l’imperatore Michele cercò di imporla con la forza e alla sua morte, nel 1282, tutto tornò come prima.  Si noti che il Concilio di Lione si aprì il 7 maggio 1274 e che San Tommaso morì il 7 marzo dello stesso anno, dopo una lunga malattia.  Secondo la tesi del complotto angioino contro san Tommaso, impedirgli di giungere a Lione significava rendere più difficile la pacificazione coi greci, e gli angioini avevano più speranze di riconquistare Costantinopoli se la corte restava greco-scismatica.

[12] U. Bosco, G. Reggio, a cura di, La Divina Commedia, Il Paradiso, Le Monnier, Firenze, 1981, p. 154

[13]

[14] A Parigi il quartiere dove si avevano le scuole di filosofia era chiamato  “Rue de Fouarre” (“Via de’ li strami”, ovvero “via della paglia”) in virtù della paglia che gli studenti portavano con sé per sedersi durante le lezioni in modo più confortevole.

[15] Per questo studio ci gioviamo della traduzione italiana  Dante e la filosofia, Jaka Books, Milano, 1987.

[16] E. Gilson, Dante e la filosofia, ed. cit., p. 243

[17] E. Gilson, Dante e la filosofia, op. cit., p. 247

[18] Sul punto si veda E. Gilson, La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia, Firenze, 1985, p. 689-691

[19] Cfr. I testi di Egidio Romano, De ecclesiastica potestate e (San Tommaso) Bartolomero di Lucca, De regimine principum.

[20] Interessante e ricco di spunti lo studio del filosofo  Richard Blum sul rapporto Sigieri-San Tommaso nel paradiso. Cfr.:   3-1-08.pdf (verbum-analectaneolatina.hu)

[21]  Ci gioveremo qui soprattutto dell’ottimo studio del domenicano Kenelm Forster,  reperibile all’indirizzo: https://www.treccani.it/enciclopedia/santo-tommaso-d-aquino_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[22] K. Forster, op. cit., p. 84

[23] K. Forster, op. cit., p. 85

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