Le ombre di Dante. Sull’ortodossia del sommo poeta

 

Presentiamo un pregevole e puntuale studio del prof. Vincenzo Gubitosi sul pensiero politico-filosofico di Dante e sul suo rapporto con la dottrina cattolica in riferimento a  temi come il rapporto fra potere politico secolare e Chiesa, fra Impero e Papato.   Se infatti è importante ribadire e scoprire sempre di nuovo l’immensa grandezza del Dante poeta, è altrettanto importante esplorare con attenzione aspetti del suo pensiero politico e della sua concezione antropologica che sollevano più di un dubbio sulla piena ortodossia delle sue concezioni.  Del resto un sincero sforzo apologetico e un vero amore per la Chiesa non possono  limitarsi al presente e alle tante battaglie che incombono sempre più minacciose, ma deve  volgersi a chiarificare anche il passato con acribia filologica e un radicale amore per la verità.

 

Autore: Vincenzo Gubitosi

Introduzione  

«Il più grande poeta del cattolicesimo».[1] Con queste parole si apre l’articolo dedicato a Dante nell’Enciclopedia Cattolica, e questa è la convinzione della stragrande maggioranza di studiosi e studenti. Ebbene, se sulla grandezza del Poeta nessuno oserebbe mai sollevare questione, sull’integrità del suo cattolicesimo si è a lungo dubitato. Per secoli, a partire da quando era ancora in vita, la Chiesa Cattolica ha espresso, direttamente o indirettamente, tramite il magistero o la teologia, un giudizio decisamente severo sul pensiero di Dante. Con questa breve analisi non si vuole manifestare alcuna forma di disprezzo, ma semplicemente mettere in luce una serie di dati storici e filosofici che in molti, in troppi oggi ignorano, conservando un’immagine del Sommo Poeta precostituita e unilaterale. Ora, per capire quale fosse, in relazione alla Chiesa, la reputazione di Dante tra il XIII e il XIX secolo occorre, com’è ovvio, partire dalle testimonianze dei suoi contemporanei.

Dante e i suoi contemporanei

Per comprendere i rapporti tra il Poeta e la gerarchia ecclesiastica, una figura chiave è quella di Bertrando dal Poggetto che, «divenuto cardinale il 17 dicembre 1316, fu dal papa inviato in Italia come legato con amplissimi poteri (1320). Il suo nome quindi rimase legato a quest’impresa italiana, che fu motivata non tanto da interessi religiosi, quanto familiari e politici, indirizzata particolarmente contro i ghibellini dell’Italia settentrionale, Visconti e loro alleati, e poi contro l’imperatore Ludovico il Bavaro negli anni 1328-1329.

Le guerre condotte dal cardinale in Italia e specie in Lombardia, non furono sempre combattute con le armi: spesso egli ricorse ad accuse di eresia e relativi processi e interdetti: in tal modo i Visconti furono dichiarati eretici e fu bandito l’interdetto contro Milano. Personaggi fiorentini sono ricordati in queste vicende, per quanto la città fosse stata incitata da lettere del papa a schierarsi con il cardinale. Secondo l’accusa di un ecclesiastico che testimoniava innanzi agl’inquisitori di Giovanni XXII, infatti, Matteo Visconti […] aveva attentato alla vita del papa per mezzo d’incantesimi; non solo, ma un altro teste affermava di aver sentito da Galeazzo Visconti che pure Dante era stato chiamato negli ultimi anni della sua vita agli esorcismi e ai suffumigi di certe immagini di cera che con la liquefazione avrebbero procurato la morte del papa.

Anche G. Iorio (in “Rivista Abruzzese” X [1895] 353) riporta la testimonianza di certo Bartolomeo Canolate che sarebbe stato spinto prima da Matteo poi da Galeazzo a un incantesimo contro il papa proponendo di ucciderlo, e a ciò si sarebbe dimostrato favorevole anche il “magister Dante de Aligherio”. La critica non è affatto concorde nel considerare favola quanto fu detto su Dante, pensando anche all’affermazione di Bartolo da Sassoferrato secondo cui a causa della Monarchia Dante «quasi … fuit damnatus de haeresi».[2]

Il riferimento di Pagnin è alla nota testimonianza del celebre giurista: «Et hoc prout tenemus illam opinionem, quam tenuit Dantes, prout illam comperi in uno libro quem fecit, qui vocatur Monarchia, in quo libro disputavit tres questiones, quarum una fuit, an Imperium dependeat ab ecclesia, et tenuit quod non, sed post mortem suam quasi propter hoc fuit damnatus de haeresi».[3] Bartolo è citato anche dal vescovo Alessandro Sperelli: «Qua haeresi aspersus fuit Dantes Aldigerius insignis Poeta, qui post obitum uti haereticus damnatus fuit, quia in quodam suo libello, cui titulus erat Monarchia affirmavit Imperium ab Ecclesia non descendere, ut refert Bart, in l. I, § fin. ff. de requ. reis, et Abb. in c. novit. num. 13 de Iudic. Niconin. in repet. c. quoniam contra num. 714, & reddunt rationem quia assertio Dantis est contra extravagantem Bonifacij VIII. Unam sanctam».[4]

Pochi anni dopo la morte di Dante, il frate domenicano Guido Vernani da Rimini scriveva un trattato contro la sua filosofia politica esposta nel De Monarchia. Il trattato è databile con sicurezza tra il 1327 e il 1334, e pertanto lo si può verosimilmente mettere in relazione con la condanna della Monarchia da parte di Bertrando del Poggetto intervenuta nel 1328.[5] Durissime le parole del Vernani: «Incontra spesso che un recipiente, il quale contiene cibo o bevanda mortiferi al rigoglio corporale e transitorio, meni di fuori un’appariscenza, si insidiosa, e si in opposto col contenuto, che trae in inganno, non pur i semplici e ottusi, ma i più acciviti. Lo stesso interviene delle cose pertinenti all’animo, e più di frequente e con maggior pericolo. Anche il bugiardo, padre di dannevol menzogna, ha suoi vaselli, che, all’esterno istoriati di figure d’onestà e di verità e di coloretti smaglianti, contengono un tossico tanto più crudele, e pestifero quanto l’anima ragionevole avvalorata dalla vita della grazia divina (la quale perdette colui che, cadendo per trabocco di superbia, non stette nel vero) sa inalzarsi sopra il corruttibile corpo. E ci fu un tale vasello, contenente poetiche fanfaluche, una copia di parole da sofista e, per certa vernice d’eloquenza a molti seppe di buono: e le cianciafruscole poetiche, le finzioni temprò con la filosofia, onde traeva Boezio consolazione, e, facendo luogo a Seneca in Chiesa, non pur gli animi torpidi, ma sì i più svegli, con soavi canti da sirena, tira, di frode, alla morte della salutevole verità. […]

Poste da banda, e in dispetto, tutte le altre opere di costui, diamoci a ricercar quel suo scritto, che volle denominar Monarchia, poiché in esso, all’apparenza, si direbbe che stia a fil di ragione, quantunque e’ mescoli verità e panzane».[6]

Scrive il sacerdote e storico Vincenzo Carrari († 1596) nella sua Storia di Romagna: «Tornato a questi tempi Lodovico in Lamagna, i suoi seguaci furono dispersi, et Nicolò Antipapa fu sforzato a rinuntiare al Papato, mentre che era nella sua falsa dignità. Egli et i seguaci suoi usarono a lor diffesa gli argomenti posti nel Libro della Monarchia di Dante poeta. Il cardinal Legato dannò al fuoco detto libro come continente cose eretiche, et il simigliante si sforzò di fare dell’ossa dell’autore, ma se gli opposero, come scrive Giovanni Boccaccio nella vita di esso poeta, un valoroso e nobile cavaliere fiorentino nominato Pino della Tosa, di cui altre volte abbiamo parlato, il quale allora a Bologna si trovò, e con lui Ostasio da Polenta potente ciascuno assai nel cospetto del Cardinale suddetto. Onde dannato il libro solo, per rispetto di quei due fu perdonato all’ossa del morto poeta».[7]

 

Un episodio singolare

Relativamente alla fama di Dante come personaggio non proprio ortodosso, risulta infine molto interessante la cronaca di un episodio avvenuto a Ravenna sulla fine del XVII secolo: dei detenuti in fuga dal carcere, per sfuggire alle guardie che li inseguivano, pensarono bene di rifugiarsi dietro le cancellate del mausoleo di Dante, sperando di ottenere asilo grazie all’immunità ecclesiastica. Ecco il racconto del fatto in un documento dell’epoca: «Dopo parecchi mesi di stretta carcere, il 26 agosto del 1694, certo Giuseppe Morena oste faentino riuscì a pervertire due garzoni del custode e a deludere la sorveglianza di costui. Fuggì quindi dalla prigione del Tribunale della Legazione, seguito quindi dai due sciagurati. Ma scoperti e inseguiti, pensaron bene di riparare in luogo immune e, non arrivando a entrare in S. Francesco, s’attaccarono fortemente alla cancellata del sepolcro di Dante. Sopraggiunti dal bargello e dai birri vie più si strinsero ai ferri, mentre gli altri si sforzavano a tutta possa di distaccarli. Il Vicario vescovile riferendo questo fatto aggiunge: “Vi accorse numerosissimo popolo, quale, strepitando perché fosse portato il dovuto rispetto all’immunità ecclesiastica e facendo per tale effetto molto rumore, alla porta del convento si portò; il Padre Guardiano da una piccola finestra, ch’è fatta nel muro contiguo et unitivo del convento medesimo con la predetta cappella, protestò al bargello chiamando testimoni a ciò dovesse astenersi di conculcare, come facea, con pubblico scandalo l’immunità ecclesiastica. Desistendo egli per qualche spazio di tempo, capitò da me il capo nodaro facendomi l’istanza a ciò permettessi di ritornare li fuggitivi nelle carceri, sino a che fosse dichiarato se il luogo era immune o no, ed io alla sola relazione dello stesso notaro, essendo per altro novo del caso, replicai non doversi revocare in dubbio l’essere il predetto luogo immune come per il passato si era tenuto dalla Curia secolare”. Il Vicario, da poco in Ravenna, equivocava maledettamente. La curia secolare non aveva deciso nulla, lo stemma della Comunità restava sempre sull’arco e sul cancello. Infatti poco dopo il Bargello tornò dal Vicario con un biglietto del Pro-legato nel quale si conteneva “l’ordine espresso di ritornare li fuggitivi nelle carceri, come seguì. Estratti a viva forza, furono ricondotti alle carceri”. Il Vicario masticò male l’ingiunzione e disse anzi di sottomettersi unicamente per non accendere “un fuoco inestinguibile senza riportarne alcun frutto che di discapito”, ma intanto formò processo. Nella sua relazione è però assai notevole questo passo: “Si fonda gagliardamente la Legazione o suoi Ministri nella decis. 113 dello Sperelli al num. 15, tomo secondo, pagina 1093, ove si asserisce che Dante fosse dopo la morte dichiarato eretico, da che restò polluto il luogo ancor che fosse sacro, onde non puote godere dell’immunità ecclesiastica. Ma a questo obbietto si risponde con le stesse asserzioni della parte, quale fonda la sua intenzione nelle prove di non essere nella capella o mausoleo più le ossa del medesimo Dante e porla a tale effetto un’iscrizione esistente dalla parte di dentro della detta cappella, ove si asserisce non esservi le ossa predette”».[8]

Il risvolto interessante di questo aneddoto risiede non tanto nel richiamo della condanna di Dante per eresia da parte della pubblica autorità, quanto nell’argomento usato dalla difesa degli evasi per sostenere l’illegittimità del loro arresto: non si nega l’eresia del Poeta, ma si obietta non essere più i suoi resti in quel luogo, con la conseguenza che non poteva risultare sconsacrato dalla sepoltura di un eretico.

Si tratta di una circostanza emblematica che aiuta a comprendere quale realmente fosse, dal punto di vista cattolico, la fama di Dante Alighieri prima del XIX secolo.

Il nodo della filosofia dantesca

Se, ancora vivente Dante, già serpeggiavano sospetti di eresia sul suo pensiero, e se un’opera fondamentale come la Monarchia (che strettissimo rapporto ha con la Commedia) fu condannata, bruciata e messa all’Indice,[9] evidentemente la riabilitazione di Dante da parte cattolica, avvenuta sul finire dell’Ottocento e proseguita fino ai giorni nostri, costituisce una patente contraddizione da risolvere.

Il nodo centrale del pensiero dantesco, che domina le opere più importanti del Poeta e che pone maggiori problemi se non riguardo alla fede cattolica, quantomeno relativamente all’obbedienza e al sentire cum Ecclesia, è di ordine filosofico-politico, e concerne i rapporti tra Chiesa e Impero, tra potere spirituale e temporale. Non bisogna però commettere l’errore di limitare la questione all’ambito puramente politico e “istituzionale”, perché essa investe, in realtà, l’intera visione dell’uomo e del suo destino. Per fondare la sua tesi su solide basi, infatti, Dante la vincola alla natura stessa dell’essere umano, partendo quindi dall’antropologia. Tanto è importante questo punto, che «i moderni interpreti […] sono concordi nel valutare la Monarchia come un trattato d’importanza fondamentale per l’approfondita conoscenza del pensiero politico di Dante e per la piena intelligenza della Commedia».[10] Esponiamo allora in sintesi il contenuto del trattato, dividendolo per i suoi punti salienti.

 

  • La duplice natura dell’uomo:

L’uomo, dice Dante, è l’unica creatura a occupare una posizione intermedia tra gli esseri incorruttibili e corruttibili, tra l’angelo e la bestia: composto di due parti essenziali, l’anima e il corpo, egli è incorruttibile quanto all’una e corruttibile quanto all’altro. Pertanto, come ogni termine medio, anche l’uomo deve partecipare della natura dei due estremi: nel suo caso, della natura degli esseri incorruttibili e di quella degli esseri corruttibili.

 

  • Il duplice fine dell’uomo:

Ora, ogni natura è ordinata verso un determinato fine ultimo. Se dunque la natura dell’uomo è duplice, anche il suo fine sarà duplice.[11] Si badi bene che Dante dice espressamente che due sono i fini ultimi dell’essere umano (duo ultima), e non a caso li definisce entrambi col nome di «beatitudines».[12] Essi sono:

  • la felicità naturale, che consiste nell’esercizio della virtù;
  • la felicità soprannaturale che consiste nel godimento di Dio.

Alla vita virtuosa, e quindi alla felicità naturale, si perviene grazie agli insegnamenti filosofici, cioè regolando gli atti umani secondo le virtù intellettuali e morali; alla vita eterna, e quindi alla felicità soprannaturale, si perviene tramite gli insegnamenti spirituali, cioè orientando gli atti umani secondo le virtù teologali di fede, speranza e carità.[13]

 

  • La pace universale come mezzo per il raggiungimento del fine:

Ebbene, se la virtù è il fine dell’uomo in questa vita, qual è il mezzo che consente alla moltitudine degli uomini, ossia la società nel suo complesso, di conseguire la virtù? La conoscenza del vero; e qual è il mezzo per sviluppare la capacità di conoscere il vero? La pace universale, perché se non vi è pace non vi è filosofia, e di conseguenza nessun perfezionamento intellettuale e morale.[14]

La pace è dunque una condizione essenziale affinché si possa realizzare il fine terreno dell’umanità, a sua volta propedeutico al raggiungimento del fine celeste.

 

  • La Monarchia universale:

A questo punto interviene un passaggio chiave, di grande importanza per capire il salto dall’antropologia alla politica, di cui Dante si serve per fondare la propria tesi: possiamo definire questo passaggio come una sorta di reductio ad unum. Infatti come nell’individuo è necessario che tutto sia sottomesso all’intelletto perché si viva felicemente; come in una famiglia tutto dev’essere sottomesso al padre, affinché i suoi membri realizzino il fine familiare che consiste nell’essere preparati a ben vivere; così in un villaggio, una città o un regno è necessario che tutto sia soggetto a un solo capo, come del resto confermerebbe indirettamente il Signore quando dice che «ogni regno diviso in se stesso cadrà in rovina» (Mt 12, 25).[15]        Proseguendo nell’induzione, Dante conclude che lo stesso discorso vale per l’intero genere umano il quale, essendo ordinato a un solo fine temporale, necessita di un solo potere supremo che lo conduca a tale fine: quello dell’Imperatore.

Pertanto la natura dell’uomo, e quindi la Provvidenza stessa che all’uomo ha dato tale natura, postula la necessità di una Monarchia universale.

 

  • Giustizia e Monarchia:

Dante usa numerosi argomenti per accreditare la sua tesi, ma uno solo è determinante: l’attuazione della giustizia. Ciò che impedisce alla volontà di essere giusta, è la cupiditas, l’avidità, il bramare per sé laddove la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo; ciò che impedisce invece a una volontà giusta di agire secondo giustizia è la mancanza di un potere adeguato che non consente di metterla in pratica. Ne deriva che nel mondo si potrà realizzare il massimo grado di giustizia solo quando sarà stata soppressa l’avidità nella volontà dell’uomo più potente.[16]

L’argomentazione di Dante si muove su un doppio binario, quando afferma che in un solo individuo occorre:

  • da un lato eliminare l’avidità;
  • dall’altro massimizzare il potere.

Colui nel quale si concretizzeranno queste due condizioni, ovvero l’Imperatore, sarà in grado di perseguire veramente il fine del genere umano travalicando ogni interesse di parte e guardando solo al bene universale. Domandiamo noi: perché? Risponde il Poeta:

  • da un lato, perché «l’unico modo di procurarsi un uomo libero da ogni cupidigia è porne uno che, possedendo tutto, non possa desiderare più niente»;[17]
  • dall’altro, perché «solo il Monarca del genere umano può volere il bene del genere umano, e cioè che tutti gli uomini, esistendo ciascuno di loro per sé, siano tutti buoni quanto è loro possibile. Non è questo il fine che si propongono gli Stati particolari. Si tratti di democrazie, di oligarchie o di tirannie, perseguono sempre un interesse particolare a cui asserviscono gli uomini, benché questo fine non sia il loro. […] Le buone società, pertanto, sono quelle ove la libertà è correttamente intesa, cioè quelle in cui gli uomini esistono per se stessi e non per lo Stato di cui fanno parte. L’autorità di un Monarca unico è dunque necessaria se si vuole che gli uomini siano governati per se stessi e non in vista di fini particolari che non sono i loro».[18]

Infatti il Monarca universale, regnando sul mondo intero, ed esercitando perciò un’autorità senza frontiere, non ha nessuna frontiera da violare; così come, possedendo tutto, non può essere avido di nulla, nutrendo verso gli altri solo carità; inoltre, laddove possono esservi conflitti tra i prìncipi o i sovrani locali, a causa dei loro interessi di parte, l’Imperatore è l’unico in grado di arbitrarli essendo super partes.

 

  • Indipendenza dell’Impero dal Papato:

Dante ha argomentato, nel Libro I, che l’Impero è voluto da Dio come mezzo indispensabile in vista del fine ultimo terreno del genere umano, ossia la felicità della vita virtuosa. Ha inoltre sostenuto, nel Libro II, la divina predestinazione del popolo romano a dominare gli altri popoli, e pertanto dell’Impero romano a costituire la Monarchia universale. Nel Libro III affronta il problema dei rapporti tra questo potere e l’altro grande potere a vocazione universale: il Papato. Come armonizzare le due sfere? La risposta a questa domanda fondamentale presuppone lo scioglimento di un altro quesito altrettanto fondamentale: se cioè l’autorità del Monarca romano derivi direttamente da Dio o da un vicario o ministro di Dio, ovvero il successore di Pietro.[19] È evidente che, se si riuscisse a dimostrare che il potere secolare deriva e dipende direttamente da Dio, sarebbe spianata la strada all’indipendenza dal potere spirituale. È esattamente ciò che afferma Dante.

Sembra di poter condensare in due passaggi chiave gli snodi principali della sua argomentazione:

  • Che l’autorità della Chiesa non sia fonte di quella imperiale, si proverebbe così: una cosa senza la cui esistenza o il cui intervento un’altra cosa possiede ugualmente integra la propria forza, non si può dire fonte di questa forza. Ora, l’Impero ha posseduto intera la sua potenza già quando la Chiesa non esisteva o non era in grado di potenziarlo; dunque, la Chiesa non è origine del potere imperiale e di conseguenza neppure della sua autorità, con cui quel potere è tutt’uno;[20]
  • Inoltre, siccome l’ordinamento del nostro mondo si modella sull’ordine celeste, è indispensabile, affinché gli insegnamenti utili alla libertà e alla pace siano adeguati in modo conveniente ai vari luoghi e tempi, che il tutore di quest’ordine sia scelto da Colui che sovrintende all’ordinamento dei cieli nella sua totalità. Questi è solo Colui che ha predisposto tale ordinamento per legare poi attraverso di esso, nella sua preveggenza, ogni cosa creata all’ordine che le spetta. Se è così, Dio solo elegge, Dio solo conferma, perché non ha nessuno sopra di sé. Da qui si può andare oltre e tener per certo che né coloro che oggi sono eletti, né coloro che a qualunque titolo furono detti “elettori”, devono essere chiamati così; piuttosto vanno considerati araldi della divina provvidenza.[21]

Ne consegue che l’Imperatore riceve la sua autorità direttamente dalla Fonte dell’autorità universale senza alcuna mediazione.[22]

 

Si vede, pertanto, come l’antropologia dantesca, postulando due fini ultimi per l’uomo, sia fondativa di una filosofia politica che stabilisce l’indipendenza e separazione dei “due grandi luminari” del mondo. Infatti, se entrambi questi fini sono ultimi, «nessuno dei due può essere subordinato all’altro; se essi non sono gerarchizzabili, non lo sono nemmeno le due autorità che presiedono a questi due ordini».[23]

 

A questo punto è bene fare una pausa riepilogativa. Per Dante, in fondo, esistono tre mezzi fondamentali per la direzione del mondo: «La filosofia che ci insegna la verità totale sul fine naturale dell’uomo; la teologia che, sola, ci conduce al nostro fine soprannaturale; il potere politico, infine, che, tenendo a freno la cupidigia umana, costringe gli uomini con la forza della legge al rispetto della verità naturale dei filosofi e della verità soprannaturale dei teologi. […] Se è così, la funzione propria del Sacerdozio e dell’Impero appare in piena luce e la distinzione radicale dei loro fini è la garanzia della loro indipendenza; ed è l’indipendenza più completa che si possa desiderare. Da una parte, il Papa, che conduce il genere umano alla vita eterna tramite la rivelazione, dall’altra, l’Imperatore, che lo conduce alla felicità temporale tramite la filosofia»[24] (Cfr. Monarchia, III, XV).

Questa sintesi può essere così schematizzata:[25]

 

Uomo
corruttibile

|

beatitudine terrena
(natura)

|

insegnamenti filosofici

|

virtù naturali

|

magistero dei filosofi

|

Imperatore

guida il genere umano

alla felicità temporale

secondo la filosofia

incorruttibile

|

beatitudine celeste
(grazia)

|

insegnamenti spirituali

|

virtù teologali

|

rivelazione divina

|

Papa

guida il genere umano

alla vita eterna

secondo la Rivelazione

 

  • La paternità spirituale del Papa:

Dante è consapevole di contraddire manifestamente il magistero della Chiesa su questo punto. Ecco perché compie, relativamente alla figura del Papa, quella che si potrebbe definire una duplice manovra intellettuale, di abbassamento e di innalzamento:

  • di abbassamento, quando, nel riconoscere la contrarietà delle proprie affermazioni all’insegnamento pontificio, menziona appunto «il Sommo Pontefice, Vicario di Nostro Signore Gesù Cristo e successore di Pietro, verso il quale dobbiamo non tutto ciò che dobbiamo a Cristo ma tutto ciò che dobbiamo a Pietro». E prosegue dicendo: «Forse a causa dello zelo per le chiavi, con lui altri pastori del gregge cristiano e poi altri ancora, mossi, credo, solo da sollecitudine per la madre Chiesa, tutti questi parlano – per zelo, come ho detto, non per superbia – contro quelle verità che io mi accingo a dimostrare»;[26]
  • di innalzamento, nella conclusione del trattato, quando sembra ammorbidire le proprie posizioni dichiarando che quanto sopra esposto non va inteso «rigidamente nel senso che un Principe romano non sia sottomesso in qualche cosa al Pontefice romano, perché la felicità terrena è in certo qual modo ordinata a quella ultraterrena. Cesare abbia dunque verso Pietro la riverenza che il figlio primogenito deve al padre, perché, illuminato dalla luce della grazia paterna, la irradii più efficacemente sulla terra, al governo della quale è stato preposto solo da Colui che è il reggitore del mondo spirituale e del temporale».[27]

 

Il mondo di Dante ci appare ormai come un sistema di giustapposizione di ordini di giurisdizione dove la gerarchia in termini di dignità non si traduce in una gerarchia di autorità degli ordini superiori sugli inferiori. Infatti, «il fine più nobile è quello del papa, poi quello del filosofo, infine quello dell’imperatore, ma non vi è alcuna autorità del papa come tale sul filosofo o sull’imperatore come tali».[28]

Nell’universo dantesco «la filosofia vi regna sulla ragione, ma la volontà dei filosofi deve obbedienza all’Imperatore e la loro fede deve sottomissione al Papa. L’imperatore regna, solo, sulle volontà, ma la sua ragione deve obbedienza al Filosofo e la sua fede al Papa. Il Papa regna senza spartizioni sulle anime, ma la sua ragione deve obbedienza al Filosofo e la sua volontà all’Imperatore. Tutti e tre devono nondimeno obbedienza e fede a Colui dal quale ciascuno di essi deriva direttamente l’autorità suprema che esercita nel proprio ordine: Dio, il Sovrano Imperatore del mondo terreno come del mondo celeste, nell’unità del quale si ricongiungono tutte le diversità».[29]

 

 

Le antinomie con la dottrina cattolica

  • L’uomo ha un solo fine ultimo:

Cominciamo con San Tommaso.[30] Nella Summa Theologiae, dopo aver definito impossibile che l’uomo possa tendere a più fini ultimi,[31] l’Angelico dichiara limpidamente che il fine ultimo dell’uomo può risiedere solo in Dio che, in quanto bene universale e perfetto, è il solo che può appagare l’animo dell’uomo quietandone la volontà.[32] San Tommaso «non ha mai ammesso, dunque, che il fine naturale dell’uomo in questa vita fosse il fine ultimo dell’uomo in questa vita, poiché l’uomo si trova in questa vita solo in vista dell’altra vita, e il suo fine in questa vita è da perseguire solo in vista del fine dell’altra vita».[33] Ne deriva la netta opposizione a quanto sostenuto da Dante, e cioè che il fine ultimo della società non è di vivere virtuosamente ma, per il tramite di una vita virtuosa, giungere al godimento di Dio:[34]

 

Dante, Monarchia, III, XV Tommaso d’Aquino, S. Th., I-II, q. 1, a. 5
Et cum omnis natura ad ultimum quendam finem ordinetur, consequitur ut hominis duplex finis existat: ut […] in duo ultima ordinetur.

 

Impossibile est quod voluntas unius hominis simul se habeat ad diversa, sicut ad ultimos fines.

 

 

 

  • L’utopia del Monarca/dux:

La visione politica di Dante perviene, sotto certi profili, a tali eccessi d’ingenuità, da apparire come un’utopia strumentale a un preciso disegno, «perché egli vuole che quando un papa si immischia negli affari di Firenze trovi di fronte a sé qualcuno con cui non può fare a meno di parlare. Se Firenze affronta il papa da sola, Firenze non ha alcuna speranza, ma se Firenze affronta il papa rappresentata da un imperatore universale, Firenze recupera tutte le possibilità di successo».[35] Le vicende personali di Dante di certo non spiegano tutto Dante, ma non si deve dimenticare che «gli avvenimenti di cui è stato testimone sono stati certamente la causa delle decisioni che egli ha preso, di cui la sua dottrina si presenta come giustificazione universalmente valida».[36]

La Monarchia, da questo punto di vista, si configura come un’utopia al contempo regressiva e progressiva:

  • regressiva, nella misura in cui non tiene realisticamente conto della inesorabile crisi dell’Impero che va sempre più perdendo prestigio e autorità in favore degli emergenti Stati nazionali. In quel contesto, la teorizzazione di una Monarchia universale appare utopisticamente rivolta al passato;[37]
  • progressiva, quando guardiamo alla figura del Monarca, un sovrano geometricamente determinato sulla base di un’operazione di “algebra morale”: sottraendo le cause di avidità e sommando tutti i poteri possibili, si otterrebbe un uomo politico mosso esclusivamente dalla carità e mai dagli interessi di parte. È evidente la struttura gnostico-utopistica di una simile ricostruzione, probabilmente dovuta anche all’influsso esercitato su Dante (come su altri grandi pensatori medievali e moderni) da Gioacchino da Fiore con il suo simbolo del dux.[38]

Superfluo sottolineare il contrasto tra utopia e cristianesimo. Anche il Monarca universale, in quanto uomo, resterebbe sempre libero di orientarsi al bene o al male, e non determinabile more geometrico, nonostante tutte le condizioni ideali che si volessero porre intorno a lui.

 

  • Il potere temporale è subordinato al potere spirituale:

Si noti innanzitutto il sofisma impiegato per dimostrare che la Chiesa non può essere la fonte del potere imperiale: poiché l’Impero esiste da prima della Chiesa, questa non può esserne l’origine. Dov’è l’errore? Nella confusione tra l’ordine genetico (relativo cioè alla nascita) e quello teleologico (relativo cioè al fine). È (ed è sempre stata) fuori discussione l’indipendenza del potere politico dalla Chiesa sul piano dell’origine: siamo qui nell’ambito del diritto umano, in virtù del quale la società si organizza naturalmente sotto la guida di un’autorità. Non si può parlare invece di indipendenza sul piano operativo, perché gli atti del potere politico sono finalizzati al conseguimento di un fine prossimo (la pace e la giustizia) che a sua volta è ordinato a un fine ultimo (la salvezza delle anime).

 

Conseguenza logica di questo principio, secondo San Tommaso, è che colui al quale spetta la cura del fine ultimo diriga coloro che si occupano dei mezzi ordinati al fine ultimo.[39] E chi, più di tutti, è competente a condurre gli uomini al fine ultimo? Il Papa. Proprio quel Papa, e qui siamo al punto cruciale, cui Dante nega di dover essere soggetto come a Cristo, a differenza di quanto affermato da Tommaso. Anche qui è possibile osservare la contraddizione quasi letterale tra le parole del Poeta e quelle dell’Aquinate:

 

Dante, Monarchia, III, III Tommaso d’Aquino, De regimine principum, I, 15
Summus namque Pontifex, Domini nostri Iesu Christi vicarius et Petri successor, cui non quicquid Christo sed quicquid Petro debemus. Summo Sacerdoti, successori Petri, Christi vicario, Romano Pontifici, cui omnes reges populi christiani oportet esse subditos, sicut ipsi Domino nostro Iesu Christo.

 

 

Da notare il riferimento preciso ed esplicito di San Tommaso alla sudditanza dei “re del popolo cristiano”, e non del popolo in generale. La fermezza di tale principio si ritrova in altri luoghi della produzione teologica del Dottore Angelico. Tanto per cominciare, nella Summa è detto che il potere civile è soggetto a quello spirituale come il corpo all’anima;[40] nel Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, poi, leggiamo che il potere spirituale e quello secolare, derivano entrambi ​​dal potere divino, e quindi il potere secolare è al di sotto di quello spirituale, in quanto gli è subordinato da Dio, e ciò in quelle cose che riguardano la salvezza dell’anima; e quindi in queste cose bisogna ubbidire più al potere spirituale che a quello secolare. Ma nelle cose che riguardano il bene civile, si deve obbedire più all’autorità secolare che a quella spirituale, secondo la parola del Salvatore (Mt. 22, 21): «rendete a Cesare ciò che è di Cesare». A meno che il potere secolare non sia unito anche al potere spirituale, come nel Papa, che detiene la pienezza di entrambi i poteri, cioè lo spirituale e il secolare.[41]

Infine possiamo citare un altro passaggio importante che ci illumina riguardo a quello che è il fulcro di tutta la questione: di per sé, dice San Tommaso, l’incredulità non è incompatibile col dominio; poiché il dominio deriva dal diritto delle genti, che è un diritto umano; mentre la distinzione tra fedeli e non fedeli deriva dal diritto divino, il quale non abolisce quello umano. Tuttavia uno può perdere il diritto al dominio in forza di una condanna, per i peccati di incredulità, come per altre colpe. Ed è giusto che i sovrani siano puniti con la perdita del dominio sui loro sudditi credenti: infatti codesto dominio potrebbe riuscire di grave pregiudizio per la fede. Perciò appena uno è dichiarato scomunicato per l’apostasia dalla fede, i suoi sudditi sono sciolti ipso facto dal suo dominio e dal giuramento di fedeltà.[42]

 

Si torna, allora, al punto di partenza: essendo uno il fine ultimo dell’uomo, cioè la salvezza, ogni altro fine non può che essergli subordinato. Ne deriva che se l’autorità legittima costituisce un pericolo per la fede, la Chiesa ha il potere di rimuoverla dalla sua carica. In questo potere radicale, è evidentemente incluso ogni altro potere specifico da esercitare ratione peccati, ossia in tutti i casi d’interferenza del temporale nelle materie di competenza dello spirituale. Si parla a riguardo di potere indiretto della Chiesa sulle questioni temporali.[43] Non entriamo però nel merito della questione fino in fondo, data la sua ampiezza e complessità. Ciò che qui interessa è che la dottrina cattolica ha sempre ammesso una forma di potere della Chiesa sulle questioni temporali come sui governanti. Concludiamo l’excursus con una triade di atti magisteriali sul tema:

 

  • Gregorio VII: «È lecito al Papa deporre gli imperatori».[44]
  • Innocenzo III: «Per il firmamento del cielo, cioè la Chiesa universale, Dio fece due grandi luminari, cioè stabilì due grandi dignità, che sono l’autorità pontificia e la potestà regia. Ma quella che presiede ai giorni, cioè alle cose spirituali, è più grande; mentre quella che presiede alle notti, cioè alle cose materiali, è minore; perché si sappia che quanto è grande la differenza tra il sole e la luna, tanto è grande la differenza tra i pontefici e i re».[45]
  • Bonifacio VIII: «Noi sappiamo dalle parole del Vangelo che in questa Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale, cioè, ed una temporale, perché, quando gli Apostoli dissero: “Ecco qui due spade” – che significa nella Chiesa, dato che erano gli Apostoli a parlare – il Signore non rispose che erano troppe, ma che erano sufficienti. E chi nega che la spada temporale appartenga a Pietro, ha malamente interpretato le parole del Signore, quando dice: “Rimetti la tua spada nel fodero”. Quindi ambedue sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale; ma questa deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la prima dal clero; la seconda dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale. Perché quando l’Apostolo dice “Non c’è potere che non venga da Dio e quelli che sono, sono ordinati da Dio”, essi non sarebbero ordinati se una spada non fosse sottoposta all’altra, e, come inferiore, non fosse dall’altra ricondotta a nobilissime imprese».[46]

 

  • La questione della «riverenza» dell’Imperatore verso il Papa:

Nella chiusura del trattato, Dante usa due espressioni volte a smorzare i toni mantenuti nel corso di tutta l’opera. Egli afferma che, essendo la vita terrena ordinata in certo qual modo (quodammodo) alla vita eterna, l’indipendenza del Monarca non comporta che egli non debba essere soggetto in qualche cosa (in aliquo) al Papa, dovendo portargli la medesima riverenza (reverentia) che il figlio deve al padre, così che possa riceverne la grazia (luce paternae gratiae) e a sua volta irradiarne la luce più efficacemente sul mondo.

C’è chi ha visto in queste righe una ritrattazione dell’intero trattato, una rettifica successiva intervenuta a causa di un pentimento tardivo o, in ogni caso, un argomento per conciliare il proprio pensiero con il magistero.[47] Ma dare di queste righe una simile lettura, come nota Gilson, «sarebbe leggerle davvero male»,[48] non solo perché le parole successive (ab Illo solo praefectus est) costituiscono la conferma definitiva della tesi generale dell’opera, ma anche perché, a un’analisi attenta, Dante non sembra affatto smentire alcunché di quanto sostenuto in precedenza. Analizziamo i concetti richiamati:

  • Mortalis ista felicitas quodammodo ad immortalem felicitatem ordinetur: cosa vuol dire “in qualche modo”? La felicità terrena è totalmente ordinata a quella celeste, senza la quale non ha alcun senso e, anzi, diventa occasione di perdizione. Questo avverbio appare come finalizzato a limitare e sminuire il legame tra vita terrena e vita eterna, tra fine naturale e fine soprannaturale, e, in definitiva, tra autorità temporale e autorità spirituale;
  • Quae quidem veritas ultimae quaestionis non sic stricte recipienda est, ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat: “in qualche cosa” è espressione generica che sembra nascondere il nulla. In realtà poco dopo Dante chiarisce in che cosa consiste questa “soggezione”;
  • Illa igitur reverentia Caesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem: “in qualche cosa” significa dunque “in spirito reverenziale”, il che non implica in nessun caso subordinazione giuridica o dipendenza di qualunque tipo;
  • Ut luce paternae gratiae illustratus virtuosius orbem terrae irradiet: ed ecco lo scopo di questa “soggezione di riverenza”, ovvero l’irradiamento più efficace (virtuosius) della luce proveniente dalla grazia paterna sul mondo intero. Fuor di metafora, ciò significa che il Papa conferirebbe all’Imperatore al massimo una benedizione, un sacramentale, invocando su di lui la grazia di svolgere più efficacemente il suo ruolo. Ancora una volta non si intravede neanche l’ombra della forza con cui i Papi del Medioevo e lo stesso San Tommaso d’Aquino hanno proclamato la supremazia della Chiesa sui regni del mondo;
  • Ab Illo solo praefectus est: per converso, le ultimissime parole dell’opera confermano che il Monarca è preposto al governo del mondo soltanto da Colui che è il reggitore dell’universo, a ribadire fermamente la diretta dipendenza da Dio del sovrano temporale, senza la mediazione del pontefice.

Conclusioni

Chiarimenti sul “laicismo” di Dante

In tempi recenti Dante è stato spesso strumentalizzato e dipinto come un antesignano del moderno laicismo liberale secondo il motto «libera Chiesa in libero Stato». In realtà, sebbene la sua filosofia politica non sia per nulla ortodossa, come pare di aver dimostrato, va ugualmente riconosciuto che la sua visione dista dall’antico ghibellinismo e dal moderno laicismo tanto quanto dalla teologia scolastica. Il mondo dantesco resta teocentrico: l’impero è una “creatura” di Dio e il Monarca gode dell’investitura divina. Inoltre, sia pure nell’indipendenza degli ordini, Imperatore e Papa operano in vista del medesimo fine. Pertanto è del tutto assente dalla filosofia politica dantesca il naturalismo proprio dei sistemi laicisti di ieri e di oggi. È pur vero, però, che fermo restando il divario abissale che separa la Monarchia dantesca dalla Repubblica laicista, la prima porta in sé i germi della seconda, perché, se in Dante il potere secolare non può e non deve contrastare il potere spirituale, anzi deve con esso cooperare, è anche vero che al di fuori del mondo medievale (o, più esattamente, dell’utopia dantesca) postulare l’indipendenza tra i due ordini significa porre le premesse della loro divergenza fino alla possibile conflittualità.

 

I pronunciamenti pontifici

La ricostruzione di Dante costituisce un unicum nella storia del pensiero politico. La sua è una creazione originalissima, terribilmente moderna per il Medioevo, terribilmente medievale per la Modernità. Non mancano però tentativi di attualizzarne la portata, anche in casa cattolica: «Qui basti aggiungere che il pensiero dantesco ha precorso di molti secoli la dottrina e la prassi moderna sulla distinzione tra potere civile e potere religioso, illustrata da Leone XIII[49] e ampliata dal Concilio Vat. II. Sono tuttavia sconosciute a Dante le esagerazioni dell’odierno laicismo, che spesso oppone i due poteri per diminuire sempre più o addirittura eliminare quello religioso. Diremo anzi di più: la concezione dantesca sulla Monarchia universale non sopprime affatto le autonomie locali e i governi nazionali; ed è perciò assai vicina a quell’unità verso la quale si sta avviando il mondo contemporaneo, e della quale si può vedere un tentativo nella vecchia Società delle Nazioni e un timido e debole inizio nelle attuali Nazioni Unite».[50] Questo tipo di giudizio si è fatto strada nella Chiesa fin dal XIX secolo, ma si è decisamente rafforzato in seguito a ben due pronunciamenti papali che hanno celebrato il Sommo Poeta nel XX secolo.

Il primo atto appartiene a Benedetto XV che così scrive: «Nella illustre schiera dei grandi personaggi, che con la loro fama e la loro gloria hanno onorato il cattolicesimo in tanti settori ma specialmente nelle lettere e nelle belle arti, lasciando immortali frutti del loro ingegno e rendendosi altamente benemeriti della civiltà e della Chiesa, occupa un posto assolutamente particolare Dante Alighieri, della cui morte si celebrerà tra poco il sesto centenario. Mai, forse, come oggi fu posta in tanta luce la singolare grandezza di questo uomo, mentre non solo l’Italia, giustamente orgogliosa di avergli dato i natali, ma tutte le nazioni civili, per mezzo di appositi comitati di dotti, si accingono a solennizzarne la memoria, affinché questo eccelso genio, che è vanto e decoro dell’umanità, venga onorato dal mondo intero. Noi pertanto, in questo magnifico coro di tanti buoni, non dobbiamo assolutamente mancare, ma presiedervi piuttosto, spettando soprattutto alla Chiesa, che gli fu madre, il diritto di chiamare suo l’Alighieri. […] Ma, si dirà, egli inveì con oltraggiosa acrimonia contro i Sommi Pontefici del suo tempo. È vero; ma contro quelli che dissentivano da lui nella politica e che egli credeva stessero dalla parte di coloro che lo avevano cacciato dalla patria. Tuttavia si deve pur compatire un uomo, tanto sbattuto dalla fortuna, se con animo esulcerato irruppe talvolta in invettive che passavano il segno […]. Del resto, […] chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero, per cui un animo così devoto alla Chiesa, come quello di Dante, ne doveva essere assai disgustato, quando sappiamo che anche uomini insigni per santità allora le riprovarono severamente?».[51]

A Benedetto XV farà eco, quarant’anni dopo, Paolo VI in chiusura del Concilio Vaticano II: «Che se volesse qualcuno domandare, perché la Chiesa cattolica, per volere del suo visibile Capo, si prende a cuore di coltivare la memoria e di celebrare la gloria del Poeta fiorentino, facile è la nostra risposta: perché, per un diritto particolare, nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire della fede cattolica, perché tutto spirante amore a Cristo; nostro perché molto amò la Chiesa, di cui cantò le glorie; e nostro perché riconobbe e venerò nel Pontefice romano il Vicario di Cristo. Né rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti. […] Ci sia lecito qui lievemente e di passaggio toccare la sua dottrina politica. I due sommi poteri (Chiesa e Impero) sono destinati da Dio a condurre gli uomini alla felicità, l’uno a quella celeste, l’altro a quella terrestre, e come queste finalità sono distinte, per quanto subordinate, così esse nel loro ambito sono indipendenti, ed evitata la confusione del sacro col profano è affermata tuttavia la mutua collaborazione, che in rebus fidei et morum è subordinazione dell’Imperatore al Sommo Pontefice; e tutti e due sono a servizio della res publica christiana. La Chiesa, poi, libera dal fardello dell’inutile fasto e dalle cure di affari temporali, tutta deve essere impegnata nella lotta per seminare la verità e per fruttificarla».[52]

Abbiamo detto in apertura che, alla luce del contrasto con la dottrina e delle condanne subìte, la riabilitazione cattolica di Dante rappresenta un’evidente contraddizione da risolvere. Senza procedere a un commento analitico dei passaggi citati, che pur meriterebbe d’esser fatto, in questa sede ci limitiamo a proporre uno spunto di riflessione. Entrambi i pronunciamenti insistono sull’opportunità per la Chiesa di “appropriarsi” del Sommo Poeta («il diritto di chiamare suo l’Alighieri»; «per un diritto particolare, nostro è Dante»). Sorge spontanea la domanda: forse qualcun altro ne rivendicava la paternità? La formula usata dai pontefici, infatti, farebbe pensare a una manovra difensiva per fronteggiare un attacco da parte di chi, fuori della Chiesa, avrebbe voluto “far suo” Dante per negarne la cattolicità: torna alla mente quella retorica ottocentesca che volle vedere in lui il poeta-vate profeta dell’unità nazionale, antesignano del Risorgimento e del laicismo liberale. Innanzi a un tale rischio, in casa cattolica si sarebbe corso ai ripari col tentativo di appropriazione di cui sopra, compiendo, però, alla luce delle antinomie rilevate, quantomeno una forzatura.

Nella coscienza cattolica, insomma, si è fatto strada il convincimento che il pensiero dantesco, sostanzialmente buono, sarebbe ricorso a “figure” o mezzi espressivi un po’ arditi per ragioni essenzialmente contingenti, relative cioè alle vicende storiche che lo hanno toccato in prima persona ed «esulcerato». Ma questa esaltazione senza se e senza ma di un Dante già riconosciuto come almeno parzialmente eterodosso, non poteva non risolversi in un boomerang per la dottrina cattolica. Paolo VI, in particolare, compiacendosi di sintetizzare i capisaldi del pensiero politico dantesco, va a toccare il punto cruciale. Rileggiamo il passaggio in questione: «I due sommi poteri (Chiesa e Impero) sono destinati da Dio a condurre gli uomini alla felicità, l’uno a quella celeste, l’altro a quella terrestre, e come queste finalità sono distinte, per quanto subordinate, così esse nel loro ambito sono indipendenti, ed evitata la confusione del sacro col profano è affermata tuttavia la mutua collaborazione». Incredibilmente si richiama qui, sottoscrivendolo, il principio dell’indipendenza tra il fine naturale e il fine soprannaturale dell’uomo (che abbiamo dimostrato non essere cattolico) e lo si presenta come un mezzo per evitare la «confusione» tra sacro e profano, come in una qualunque Carta Costituzionale moderna.[53]

 

Un colpo al cuore del tomismo

Un’ultima considerazione: molti autori sostengono che dalla Monarchia alla Commedia il pensiero di Dante sia mutato radicalmente, che sia intervenuta una vera e propria conversione. Qualcun altro, invece, afferma che vi sia differenza di toni o di stile ma non di contenuti. Senza entrare nel merito della questione, e vincolandone lo svolgimento a uno studio ben più approfondito, ricordiamo che le due opere sono legate da una relazione di sostanziale continuità tematica su questo piano,[54] come testimoniano le frequenti allusioni a Bonifacio VIII nell’Inferno, la dura reprimenda di San Pietro contro i suoi successori in Pd XXVII e, su tutte, la celebre visione apocalittica di Pg XXXII.

Ciò detto, andiamo a chiudere la nostra riflessione con una delle sintesi più efficaci sulla natura dei rapporti tra pensiero dantesco e dottrina cattolica: «La cosa più notevole, nell’atteggiamento di Dante, è peraltro che egli abbia compreso, con una profondità speculativa che gli fa onore, che non è possibile sottrarre totalmente il temporale alla giurisdizione dello spirituale, se non sottraendo totalmente la filosofia alla giurisdizione della teologia. Dante occupa un posto di capitale importanza nella storia della filosofia politica medievale per aver chiaramente visto e nettamente espresso questo. Se infatti la ragione filosofica su cui l’imperatore si regola restasse anche in minima parte sottomessa all’autorità dei teologi, il papa riprenderebbe tramite essi quell’autorità sull’imperatore che invece gli si vuol sottrarre. Governando sulla ragione, egli governerebbe in tal modo anche la volontà che è guidata dalla ragione. La separazione di Chiesa e Impero, pertanto, presuppone necessariamente la separazione di teologia e filosofia; per questo motivo, come aveva spezzato in due tronconi l’unità della cristianità medievale, Dante infrange nel mezzo l’unità della sapienza cristiana, principio unificatore e legame della Cristianità. In ambedue questi punti vitali, questo sedicente tomista ha ferito mortalmente la dottrina di san Tommaso d’Aquino».[55]

[1] Enciclopedia Cattolica, Sansoni, Firenze 1950, 1169, v. “Dante Alighieri”.

[2] B. Pagnin, Enciclopedia dantesca, 1970, cit. in Treccani Enciclopedia online, v. “Bertrando dal Poggetto”. Cfr. anche, su “Dante mago”, G. Papini, La leggenda di Dante. Motti, facezie e tradizioni dei secoli XIV-XIX, Carabba Editori, Lanciano 1911, pp. 105-108.

[3] Bartolo da Sassoferrato, In Secundam Partem Digesti Novi, tit. De requirendis reis. § Praesides, Venezia 1570, cart. 189.

[4] A. Sperelli, Decisiones Fori Ecclesiastici – Pars Altera, Samuel Chouet, Ginevra 1667, p. 107, n. 15.

[5] Cfr. P. G. Ricci, Enciclopedia dantesca, 1970, in Treccani Enciclopedia online, v. “Guido Vernani”.

[6] G. Vernani, Tractatus de reprobatione “Monarchiae” compositae a Dante Aligherio Florentino, in Jarro (G. Piccini), Contro Dante. Tractatus…, R. Bemporad & Figlio, Firenze 1906, pp. 3-5.

[7] V. Carrari, cit. in C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, Hoepli, Milano 1891, pp. 189-190.

[8] Documento conservato in Ravenna, all’Archivio Arcivescovile (Diversorum XIII, pp. 1105-1110), cit. in C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, cit., pp. 306-307. La discrepanza tra il numero di pagina della Decisio CXIII nell’opera dello Sperelli (v. nota 4 del presente lavoro, che indica p. 107) e il numero indicato dal Vicario nel passo citato si può spiegare soltanto con un errore materiale di trascrizione.

[9] Cfr. P. G. Ricci, Enciclopedia Dantesca, 1970, in Treccani enciclopedia online: «Durerà per mezzo millennio, la persecuzione della Chiesa, che incluse il trattato nell’Indice di Venezia e poi in quello romano di Paolo IV, e poi nel Tridentino; e all’Indice lo mantenne fino al 1881».

[10] Ibidem.

[11] Cfr. Monarchia, III, XV: «Et cum omnis natura ad ultimum quendam finem ordinetur, consequitur ut hominis duplex finis existat: ut, sicut inter omnia entia solus incorruptibilitatem et corruptibilitatem participat, sic solus inter omnia entia in duo ultima ordinetur, quorum alterum sit finis eius prout corruptibilis est, alterum vero prout incorruptibilis».

[12] Ibidem.

[13] Cfr. Ibidem: «Ad has quidem beatitudines, velut ad diversas conclusiones, per diversa media venire oportet. Nam ad primam per phylosophica documenta venimus, dummodo illa sequamur secundum virtutes morales et intellectuales operando; ad secundam vero per documenta spiritualia quae humanam rationem transcendunt, dummodo illa sequamur secundum virtutes Theologicas operando, Fidem scilicet Spem et Charitatem».

[14] Cfr. Ivi, I, V: «Et quia quemadmodum est in parte sic est in toto, et in homine particulari contingit quod, sedendo et quiescendo prudentia et sapientia ipse perficitur, patet quod genus humanum in quiete sive tranquillitate pacis ad proprium suum opus, quod fere divinum est (iuxta illud Minuisti eum paulominus ab angelis), liberrime atque facillime se habet. Unde manifestum est quod pax universalis est optimum eorum quae ad nostram beatitudinem ordinantur».

[15] Cfr. Ivi, I, VII: «Si denique unum regnum particolare, cuius finis est is qui civitatis cum maiori fiducia suae tranquillitatis, oportet esse regem unum qui regat atque gubernet; aliter non modo existentes in regno finem non assecuntur, sed et regnum in interitum labitur, iuxta illud infallibilis veritatis: Omne regnum in se divisum desolabitur».

[16] Cfr. Ivi, I, XIII: «Quantum ergo ad habitum, iustitia contrarietatem habet quandoque in velle; nam ubi voluntas ab omni cupiditate sincera non est, etsi assit iustitia, non tamen omnino inest in fulgore suae puritatis: habet enim subiectum, licet minime, aliqualiter tamen sibi resistens; propter quod bene repelluntur qui iudicem passionare conantur. Quantum vero ad operationem, iustitia contrarietatem habet in posse; nam cum iustitia sit virtus ad alterum, sine potentia tribuendi cuique quod suum est, quomodo quis operabitur secundum illam? Ex quo patet quod quanto iustus potentior, tanto in operatione sua iustitia erit amplior».

[17] É. Gilson, Dante e la filosofia, Jaka Book, Milano 2021, p. 164.

[18] Ivi, p. 165.

[19] Cfr. Monarchia, III, I: «Quaestio igitur presens, de qua inquisitio futura est, inter duo luminaria magna versatur: Romanum scilicet Pontificem et Romanum Principem; et queritur utrum auctoritas Monarchae romani, qui de iure Monarcha mundi est, ut in secundo libro probatum est, immediate a Deo dependeat an ab aliquo Dei vicario vel ministro, quem Petri successorem intelligo, qui vere est claviger regni caelorum».

[20] Cfr. Ivi, III, XII: «Quod autem auctoritas Ecclesiae non sit caussa Imperialis auctoritatis probatur sic: illud, quo non existente aut quo non virtuante, aliunde habet totam suam virtutem, non est caussa illius virtutis; sed, Ecclesia non existente aut non virtuante, Imperium habuit totam suam virtutem: ergo Ecclesia non est caussa virtutis Imperii et per consequens nec auctoritatis, cum idem virtus sit et auctoritas eius».

[21] Cfr. Ivi, III, XV: «Cumque dispositio mundi huius dispositionem inhaerentem coelorum circumlationi sequatur, necesse est ad hoc ut utilia documenta libertatis et pacis commode locis et temporibus applicentur, ista dispensari ab Illo ab Illo curatore qui totalem coelorum dispositionem presentialiter intuetur. Hic autem est solus Ille qui hanc preordinavit, ut per ipsam providens suis ordinibus quaeque connecteret. Quod si ita est, solus eligit Deus, solus ipse confirmat, cum superiorem non habeat. Ex quo haberi potest ulterius quod nec isti qui nunc, nec alii cuiuscumque modi dicti sunt electores, sic dicendi sunt, quin potius denuntiatores divine providentiae sunt habendi».

[22] Cfr. Ibidem: «Sic ergo patet quod auctoritas temporalis Monarchae sine ullo medio in ipsum de fonte universalis auctoritatis descendit».

[23] É. Gilson, op. cit., p. 178.

[24] Ivi, p. 181.

[25] Riproduzione tradotta dal latino dello schema in É. Gilson, op. cit., p. 182.

[26] Monarchia, III, III: «Summus nanque Pontifex, Domini nostri Iesu Christi vicarius et Petri successor, cui non quicquid Christo sed quicquid Petro debemus, zelo fortasse clavium, nec non alii Graecorum Christianorum pastores et alii, quos credo zelo solo matris Ecclesiae permoveri, veritati quam ostensurus sum de zelo forsan (ut dixi) non de superbia contradicunt».

[27] Ivi, III, XV: «Quae quidem veritas ultimae quaestionis non sic stricte recipienda est, ut Romanus Princeps in aliquo Romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis ista felicitas quodammodo ad immortalem felicitatem ordinetur. Illa igitur reverentia Caesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem ut, luce paternae gratiae illustratus, virtuosius orbem terrae irradiet. Cui ab Illo solo praefectus est, qui est omnium spiritualium et temporalium gubernator».

[28] É. Gilson, op. cit., p. 184 (nota 46).

[29] Ibidem.

[30] Si ricorda che San Tommaso d’Aquino è stato a più riprese, da numerosissimi pontefici, indicato come il faro della sapienza cristiana subito dopo il Magistero ecclesiastico; al punto che chi dice tomismo dice dottrina cattolica. Cfr., sul punto, l’Enciclica Aeterni Patris di Leone XIII.

[31] Cfr. S. Th., I-II, q. 1, a. 5: «Impossibile est quod voluntas unius hominis simul se habeat ad diversa, sicut ad ultimos fines».

[32] Cfr. S. Th., I-II, q. 2, a. 8: «Beatitudo enim est bonum perfectum, quod totaliter quietat appetitum, alioquin non esset ultimus finis, si adhuc restaret aliquid appetendum. Obiectum autem voluntatis, quae est appetitus humanus, est universale bonum; sicut obiectum intellectus est universale verum. Ex quo patet quod nihil potest quietare voluntatem hominis, nisi bonum universale. Quod non invenitur in aliquo creato, sed solum in Deo».

[33] É. Gilson, op. cit., p. 178.

[34] Cfr. De regimine principum, I, 15: «Sed quia homo vivendo secundum virtutem ad ulteriorem finem ordinatur, qui consistit in fruitione divina, ut supra iam diximus, oportet eumdem finem esse multitudinis humanae qui est hominis unius. Non est ergo ultimus finis multitudinis congregatae vivere secundum virtutem, sed per virtuosam vitam pervenire ad fruitionem divinam».

[35] É. Gilson, op. cit., p. 161.

[36] Ibidem (nota 16).

[37] Cfr. G. Baldi et al., Dal testo alla storia dalla storia al testo, I, Paravia, Torino 1996, p. 542.

[38] Cfr. B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Laterza, Bari 1942, pp. 293 ss.: «Uno di questi uomini dotati di spirito profetico era, per Dante, il calabrese abate Gioachino, checché ne pensassero Bonaventura e Tommaso»; E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1970, p. 38.

[39] Cfr. De regimine principum, I, 15: «Semper enim invenitur ille, ad quem pertinet ultimus finis, imperare operantibus ea quae ad finem ultimum ordinantur».

[40] S. Th., II-II, q. 60 a. 6 ad 3: «potestas saecularis subditur spirituali sicut corpus animae».

[41] Cfr. Super Sent., lib. II, d. 44, q. 2, expositio a. 3: «Potestas spiritualis et saecularis, utraque deducitur a potestate divina; et ideo intantum saecularis potestas est sub spirituali, inquantum est ei a Deo supposita, scilicet in his quae ad salutem animae pertinent; et ideo in his magis est obediendum potestati spirituali quam saeculari. In his autem quae ad bonum civile pertinent, est magis obediendum potestati saeculari quam spirituali, secundum illud Matth. 22, 21: reddite quae sunt Caesaris Caesari. Nisi forte potestati spirituali etiam saecularis potestas conjungatur, sicut in Papa, qui utriusque potestatis apicem tenet, scilicet spiritualis et saecularis, hoc illo disponente qui est sacerdos et rex in aeternum».

[42] Cfr. S. Th., II-II, q. 12, a. 2, co.: «Infidelitas secundum seipsam non repugnat dominio, eo quod dominium introductum est de iure gentium, quod est ius humanum; distinctio autem fidelium et infidelium est secundum ius divinum, per quod non tollitur ius humanum. Sed aliquis per infidelitatem peccans potest sententialiter ius dominii amittere, sicut et quandoque propter alias culpas. Ad Ecclesiam autem non pertinet punire infidelitatem in illis qui nunquam fidem susceperunt, secundum illud apostoli, I ad Cor. V, quid mihi de his qui foris sunt iudicare? Sed infidelitatem illorum qui fidem susceperunt potest sententialiter punire. Et convenienter in hoc puniuntur quod subditis fidelibus dominari non possint, hoc enim vergere posset in magnam fidei corruptionem; quia, ut dictum est, homo apostata suo corde machinatur malum et iurgia seminat, intendens homines separare a fide. Et ideo quam cito aliquis per sententiam denuntiatur excommunicatus propter apostasiam a fide, ipso facto eius subditi sunt absoluti a dominio eius et iuramento fidelitatis quo ei tenebantur».

[43] Cfr. C. Journet, La Juridiction de l’Église sur la Cité, Desclée De Brower et Cie, Paris 1931, in particolare pp. 112-124.

[44] Dictatus Papae (1075), proposizione XII: «Quod illi liceat imperatores deponere».

[45] Decretale Solitae, in Compilatio III (1210): «Ad firmamentum igitur coeli, hoc est universalis Ecclesiae, fecit Deus duo magna luminaria, id est, duas magnas instituit dignitates, quae sunt pontificalis auctoritas, et regalis potestas. Sed illa, quae praeest diebus, id est spiritualibus, maior est; quae vero noctibus, id est carnalibus, minor; ut, quanta est inter solem et lunam, tanta inter pontifices et reges differentia cognoscatur».

[46] Bolla Unam Sanctam (1302): « In hac ejusque potestate duos esse gladios, spiritualem videlicet et temporalem, evangelicis dictis instruimur. Nam dicentibus Apostolis: “Ecce gladii duo hic”, in ecclesia scilicet, cum apostoli loquerentur, non respondit Dominus, nimis esse, sed “satis”. Certe qui in potestate Petri temporalem gladium esse negat, male verbum attendit Domini proferentis: “Converte gladium tuum in vaginam”. Uterque ergo est in potestate ecclesiae, spiritualis scilicet gladius et materialis. Sed is quidem pro ecclesia, ille vero ab ecclesia exercendus, ille sacerdotis, is manu regum et militum, sed ad nutum et patientiam sacerdotis. Oportet autem gladium esse sub gladio, et temporalem auctoritatem spirituali subiici potestati. Nam cum dicat Apostolus: “Non est potestas nisi a Deo; quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt”, non autem ordinata essent, nisi gladius esset sub gladio, et tamquam inferior reduceretur per alium in suprema».

[47] Cfr., tra gli altri, J. Rivière, Le problème de l’Église et de l’État au temps de Philippe le Bel, Louvain-Paris 1926, p. 338: «C’est dire à quel point est incontestable, mêmes en ses vues les plus hardies sur l’ordre mondial, l’orthodoxie de l’altissimo poeta».

[48] É. Gilson, op. cit., p. 183.

[49] Fu proprio Leone XIII, nel 1881, a far rimuovere dall’Indice la Monarchia (n.d.a.).

[50] C. Dragone (a cura di), La Divina Commedia – Inferno, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, p. XXI.

[51] Enciclica In praeclara summorum, ai diletti figli professori ed alunni degli istituti letterari e di alta cultura del mondo cattolico in occasione del VI centenario della morte di Dante Alighieri, 1921.

[52] Motu Proprio Altissimi cantus, per il settimo centenario della nascita di Dante Alighieri, 1965.

[53] Cfr. art. 7 della Costituzione della Repubblica italiana: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

[54] Cfr. C. Dragone, op. cit., p. XXI: «La posizione dottrinale di Dante nella Monarchia sui rapporti tra Chiesa e Impero la si incontra e nel […] Purgatorio, e in vari canti del Paradiso»; P. G. Ricci, Enciclopedia Dantesca, 1970, in Treccani enciclopedia online: «I moderni interpreti […] sono concordi nel valutare la Monarchia come un trattato d’importanza fondamentale per l’approfondita conoscenza del pensiero politico di Dante e per la piena intelligenza della Commedia».

[55] É. Gilson, op. cit., pp. 194-195.

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