Shakespeare era cattolico?  Tracce per penetrare il “cuore del suo mistero”

(articolo di  Elisabetta Sala)  Quest’anno si celebra il quattrocentesimo anniversario del First Folio, la prima edizione ufficiale dei drammi shakespeariani. L’autore, defunto da sette anni, non si era mai preoccupato di farlo. Come mai?

È solo il più banale dei quesiti senza risposta che avvolgono il Bardo dell’Avon. Come mai non abbiamo scritti di suo pugno, a parte qualche firma e forse uno stralcio di dramma scritto insieme ad altri e mai andato in scena? Perché quel suo strano testamento in cui lascia alla moglie il letto di seconda scelta ma non un libro, a nessuno? Perché si ritirò dalle scene al culmine della carriera e della fama? Perché, da ragazzo, si trasferì a Londra e investì tutte le sue energie in quella che era considerata un’avventura più che una vera attività lavorativa? E sì che a casa, nel Warwickshire, aveva genitori benestanti, una moglie e tre figli piccolissimi. Perché scrisse quei sonetti tanto strani senza mai farli pubblicare? (uscirono nel 1609, stampati da un altro). E così via.

Per capire meglio, due cose si rendono necessarie: una, esaminare, per quel che ne sappiamo, il mondo in cui viveva, il pubblico per cui scriveva (certo non scriveva per noi); due, ripercorrere con attenzione, cercando di leggere tra le righe, l’intero Canone, alla ricerca di elementi unificatori che ci svelino l’uomo insieme all’artista.

Per far questo, bisogna innanzitutto grattare via il cerone aureo sapientemente applicato dagli storici Whig sull’età elisabettiano-giacobita e andare a scoprire quella che è ormai nota agli studiosi seri come la tragedia di un popolo. La cosiddetta Golden Age, uno dei primi esempi dell’età moderna di culto della personalità sapientemente costruito, fu in realtà un regime totalitario e persecutorio per tutti i dissidenti, che erano molti. Il fatto che la regina fosse capo dello Stato e della Chiesa insieme equiparava la dissidenza religiosa all’alto tradimento ed esponeva il colpevole all’atroce pena del pubblico squartamento.

L’anglicanesimo era essenzialmente uno strumento di controllo sulla popolazione, i suoi pulpiti il primo grande mezzo di comunicazione di massa, da cui si proclamava in salse diverse un unico messaggio: obbedienza, obbedienza, obbedienza. L’antica fede era anatema, il Papa l’anticristo, i sacerdoti cattolici agenti di satana. Non per nulla la frequenza al servizio religioso domenicale divenne obbligatoria, sotto Elisabetta, per la prima volta nella storia, pena multe salatissime applicate a ogni membro della famiglia (compresa la servitù) e a ogni domenica di mancata presenza. Soprattutto dopo il 1570, quando Pio V scomunicò la regina, essere cattolici equivaleva a diventare cittadini di serie B e poteva condurre all’espropriazione, alla prigione, al patibolo. Era nato un nuovo reato, una nuova etichetta per i «papisti» che rifiutavano di presenziare alle funzioni, il delitto di ricusanza. Lo Stato si arricchì dissanguando le famiglie ricusanti, molte delle quali finirono sul lastrico.

È illuminante, in questo senso, sapere almeno a grandi linee che il governo elisabettiano rappresentava una minoranza all’interno della minoranza protestante: per lo meno a livello statistico, dunque, era altamente probabile che chi non apparteneva a quella ristretta cerchia nutrisse almeno qualche rimpianto, qualche simpatia per il cattolicesimo, cancellato con un colpo di spugna da un atto del parlamento. Come dire che la maggioranza dei sudditi era potenzialmente colpevole di altro tradimento e che il compito del governo, con i suoi raffinati servizi segreti, era quello di stanarne il maggior numero possibile e inoculare negli altri una dose sufficiente di terrore da renderli innocui.

I giovani cattolici che volevano farsi sacerdoti erano costretti a fuggire all’estero. Molti rientravano in patria clandestinamente per tenere viva la fede: vivevano nel nascondimento e, se catturati, finivano orrendamente torturati e pubblicamente eviscerati: in un’esecuzione ben fatta, il boia doveva esibire alla folla un cuore ancora pulsante.

Oltre ai pulpiti, l’unico altro mezzo di comunicazione a contatto diretto con il popolo era il teatro. La severa censura istituita sui testi non bastava a eliminare contenuti potenzialmente sovversivi, in quanto non impediva agli attori di improvvisare battute, di pronunciare questa o quella frase in tono ironico o sarcastico, di esprimersi con la mimica.

Dove stava Shakespeare in tutto questo? È vero che non prese posizione e badò solo agli incassi? Cosa rende speciali le sue opere? Perché, ad esempio, il romantico Coleridge lo definì «myriad-minded»?

È vero che l’opera shakespeariana è tutta pervasa da un che di misterioso, di mai pienamente spiegabile che certo contribuisce alla sua fortuna. Né l’uomo, né l’opera si riescono a inquadrare in modo soddisfacente e gli studi critici, mai fermi, da un lato spiegano sempre più, dall’altro rivelano un numero sempre maggiore di aspetti enigmatici o ambigui. Come mai, ad esempio, i riferimenti alle tematiche di attualità, che tanta presa facevano sul pubblico, sono tanto scarsi nell’intero Canone?

Da qualunque parte lo si prenda, ciò che si legge, o si vede sul palco, è solo la punta di un iceberg: è questo il fascino shakespeariano. Come se giocasse a nascondino: cosa voleva dire esattamente con questa o quella battuta, che spesso, nel gioco degli specchi, si presta a una molteplicità di interpretazioni da vertigine? Più lo si studia, più ci si rende conto che c’è qualcosa che sfugge, qualcosa di vagamente simile al sorriso della Gioconda.

Che egli non fosse insofferente delle corte briglie imposte dal regime è testimoniato in un timido verso del sonetto 66, che deplora che l’autorità abbia legato la lingua all’arte.  Può essere, dunque, che parlasse in una specie di linguaggio cifrato? La sua reticenza si può forse paragonare a quella del principe di Danimarca, che vorrebbe parlare ma non può? («spezzati, cuore mio, perché devo tenere la lingua a freno». Ham 1.2, 159)

In un altro famoso brano dell’Amleto due falsi amici, Rosencrantz e Guildenstern, cercano di carpire al principe il suo segreto, ma lui, ben più furbo, evade le inchieste con grande nonchalance: non riusciranno mai, risponde, a strappargli «il cuore» del suo «mistero» (Ham 3.2, 353-354). È l’autore, qui, a parlare in prima persona e a sfidare letture troppo semplicistiche delle sue opere? Se sì, qual è il cuore del suo mistero? Che rapporti aveva il grande drammaturgo con il mondo sotterraneo della dissidenza politica e religiosa?

Accostando il canone shakespeariano con una certa attenzione, si percepisce immediatamente un alone filocattolico: rimpianto per un passato perduto, simpatia per gli ordini religiosi (regolarmente sbeffeggiati, invece, dagli autori di sistema), imprecazioni in nome dei santi, della Madonna, delle reliquie, della Santa Croce; toccate e fughe che accennano alla confessione, alla Messa, al Purgatorio (odiatissimo da tutti i protestanti, anglicani e non)… Una questione di atmosfera, dunque, innanzitutto; di un certo clima, che non sfuggì a diversi critici ottocenteschi dall’orecchio allenato. A partire da quel momento, vita e opere cominciarono a essere rivisitati, scandagliati, riesplorati. Diverse furono le scoperte interessanti.

Tanto per cominciare, l’ambiente in cui Shakespeare fu allevato era anticonformista quanto bastava appena a non finire nei guai: nelle ondate persecutorie che si scatenavano regolarmente, era raro che non uscissero nomi a lui connessi. Qualche esempio. Il padre, John, nascose tra le travi della soffitta un testamento spirituale cattolico, redatto nientemeno che da san Carlo Borromeo durante la peste di Milano e diffuso in Inghilterra dai missionari gesuiti Persons e Campion. Il documento fu rinvenuto nel Settecento, ma la sua autenticità venne dimostrata solamente nel 1923. Il nome di John Shakespeare compare inoltre nella lista di ricusanza compilata nel 1592, mentre quello della giovane Susanna, figlia del drammaturgo, comparirà in una analoga lista del 1606.

La madre di William, Mary Arden, apparteneva invece a un’antica famiglia gentilizia cattolica il cui capostipite, Edward Arden, subì l’atroce pena dei traditori nel 1583 soltanto per la sua fede. Persino i maestri di scuola di Stratford erano per lo più filocattolici o ricusanti: uno di loro fuggì all’estero per farsi gesuita; un altro ebbe un fratello sacerdote arrestato e giustiziato. E poi c’è la famosa «pista del Lancashire», suggerita dapprima, timidamente, nel 1937 e poi con sempre maggior forza: il giovane Shakespeare potrebbe essersi allontanato da casa per andare a fare il pedagogo-musico-attore presso una grande famiglia ricusante del Nord, dove potrebbe essere entrato in contatto con lo straordinario gesuita Edmund Campion, destinato a subire il martirio, preceduto da torture atroci, di lì a poco.

Ed ecco i cosiddetti «anni perduti», in cui Shakespeare, come si è detto, lasciò a Stratford tutti i suoi cari per cercar fortuna a Londra nel peggior modo possibile: facendo l’attore. Si era scelto la professione più insicura del mondo, poiché, tra pestilenze e divieti della municipalità puritana, l’ambiente teatrale era a continuo rischio di chiusura. Ma, ancora una volta, dietro l’apparente irrazionalità di quel trasferimento emerge una possibilità molto concreta e logica: quella di una fuga. Giacché proprio in quel periodo la famiglia Arden era caduta in disgrazia in seguito alla «congiura» cattolica che aveva travolto Edward e tutti i parenti furono inquisiti dal governo. Per secoli la tradizione volle darci a bere una fuga in seguito a caccia di frodo; ma andiamo, siamo seri. Se di fuga si trattò, fu da qualcosa di molto più importante e pericoloso.

Da chi andò, il giovane William, una volta a Londra? Probabilmente cercò la protezione di un nobile filocattolico che, guarda caso, aveva stretti legami con le famiglie ricusanti del settentrionale Lancashire. Ma il nobile in questione, Ferdinando, Lord Strange, dava fastidio a qualcuno molto in alto: nel giro di pochissimo fu eliminato senza tanti complimenti. Da chi? Dai gesuiti, affermò il governo inglese dopo il 1606; dal governo, suggeriscono invece altri studiosi alla luce di studi più recenti. Fatto sta che Shakespeare dovette cercare la protezione di qualche altro… nobile cattolico: il conte di Southampton, rampollo della potente famiglia dei visconti di Montague.

Montague? Sì, è proprio il nome inglese dei «Montecchi», la famiglia di Romeo. Interessante, allora, individuare un possibile riferimento proibito alla regina stessa in un brano dell’apparentemente innocente Romeo e Giulietta. Dalla sua postazione sotto il balcone, infatti, Romeo invoca l’amata e la paragona al sole (2.1, 46-51):

Arise, fair sun, and kill the envious moon,

Who is already sick and pale with grief

That thou, her maid, art far more fair than she.

Be not her maid, since she is envious.

Her vestal livery is but pale and green,

And none but fools do wear it; cast it off!

 

«Sorgi, fulgido sole, e uccidi la luna invidiosa / che è già malata e pallida di dolore / perché tu, sua damigella, sei molto più bella (fulgida) di lei. / Non essere sua damigella perché è invidiosa. / La sua vestale livrea è pallida e verde / e la indossano soltanto i folli: gettala via!».

Perché mai il giovane innamorato ce l’ha tanto con la luna, che di solito degli innamorati è complice? Grattando via il cerone, si scopre che la luna era un simbolo ricorrente, e ormai scontato, nientemeno che di Elisabetta «la grande», la Regina Vergine in persona, nella veste di Diana, Cinzia, Selene eccetera. Peccato che, a differenza di quelle, questa non fosse immortale né eternamente giovane. Aveva ormai oltrepassato i sessant’anni e, vero, era più che invidiosa della bellezza delle giovani damigelle di cui si circondava. Ancora più interessante è il fatto che una di loro fosse da poco stata resa gravida proprio dal conte di Southampton.

A convalidare l’allegoria, qualora il pubblico di allora non se ne fosse accorto, abbiamo la livrea «pallida e verde» della luna: quella della regina era bianca e verde. Per questo, a titolo di foglia di fico, l’aggettivo «pale», pallido, fu in seguito sostituito da «sick», malaticcio. La pericolosità del messaggio si estende, come al solito, a vari livelli: semplice satira, con la bellezza della giovane esaltata di fronte all’avvizzimento e all’invidia della sovrana; vera e propria sovversione, d’altro canto, se si considera che Giulietta è invitata dal cattolico Montague a «uccidere» la – già moribonda – luna e, in ogni caso, a non servirla. Difficilmente un simile brano avrebbe potuto essere incluso in una recita a Corte.

Passiamo a qualche altro indizio nelle opere. Perché, ad esempio, Shakespeare infarcisce i drammi classici di elementi anacronistici come chiese, campanili, monasteri? Come nella Commedia degli errori, in cui un’abbazia accanto a certi «fossi» fa da riferimento topico al luogo di un’esecuzione. Ha una certa importanza, come si scoprì negli anni Trenta, che lo scenario fosse esattamente lo stesso accanto al primo teatro in cui Shakespeare lavorò: lì, in seguito alla sconfitta dell’Armada spagnola, fu giustiziato un sacerdote cattolico per il solo fatto di essere tale. Gli Errori contengono dunque un velato tributo a un martire? Fondamentali, a questo punto, gli studi accademici che hanno rintracciato quanto l’intero canone sia pregno dell’influsso di scrittori gesuiti, soprattutto di Robert Persons e Robert Southwell.

I sacerdoti erano braccati dal regime e automaticamente colpevoli di alto tradimento per la loro semplice presenza su suolo inglese: è quanto accade allo sfortunato mercante degli Errori: in questo senso è di una certa rilevanza che «mercante» fosse allora una parola in codice, tra i ricusanti, per «missionario». Ovviamente i riferimenti erano molto più espliciti per chi li sapeva riconoscere, mentre potevano passare quasi inosservati a occhi disattenti o a orecchie profane.

Ritroviamo riferimenti ai sacerdoti, e alla barbarie loro inflitta dal regime, nel Mercante di Venezia, in cui la pena del cuore strappato era anche troppo realistica e applicabile al quotidiano. Soprattutto, il missionario braccato per cui «nessun porto è libero» è il buon Edgar nel Re Lear, costretto a travestirsi da povero demente per sfuggire alla cattura e a nascondersi in un buco: non a caso, i nascondigli speciali preparati dai ricusanti per i sacerdoti erano chiamati priest holes, buchi per i preti. Sempre nel Lear abbiamo una delle scene più agghiaccianti dell’intero canone: la tortura e l’accecamento (senza processo) dell’anziano conte di Gloucester, falsamente accusato di tradimento.

È questo un particolare di una certa importanza: nell’opera shakespeariana, l’accusa di tradimento è solitamente riservata a personaggi innocenti, i quali sono invece i più fedeli in assoluto e disposti a pagare la loro fedeltà con la vita.

Leggendo tra le righe, gli elementi «sovversivi» si fanno via via più fitti, non solo, come si è detto, in alcuni dei Sonetti, ma anche in quelli che sembravano due innocenti poemetti classicheggianti e che sono entrambi dedicati al conte di Southampton e sono le uniche opere che l’autore si curò di far pubblicare. Nella Lucrezia si può leggere in controluce, al di là della storiella di intrattenimento ripescata dai libri di scuola, una malinconica allegoria delle violenze inflitte al Paese da Enrico VIII (riprese poi un po’ ovunque nei drammi e in modo particolarmente chiaro nel Racconto d’inverno). In Venere e Adone si intravede invece la seduzione politica, da parte della corte elisabettiana, a danno dei giovani nobili provenienti da famiglie «papiste».

E via di questo passo. Stupiscono alcuni temi ricorrenti che, se riscontrati in opere isolate, possono non destare particolari sospetti ma che diventano messaggi chiarissimi proprio per la loro ricorrenza lungo tutto il canone, dalle opere giovanili a quelle mature, dalle commedie alle tragedie ai drammi storici ai romances. Parliamo dell’esilio dei buoni, del diritto di un popolo oppresso al tirannicidio e, soprattutto, dell’invasione straniera (spesso guidata da quegli stessi esuli «rinnegati») come unico rimedio per salvare un Paese ferito e oppresso dai suoi stessi governanti.

Qui il terreno si faceva davvero caldo per il nostro drammaturgo e per la sua compagnia: tanto che una volta finirono sotto interrogatorio per la parte che un loro dramma aveva avuto nell’incoraggiare una congiura di palazzo. Parliamo del Riccardo II e della congiura di Essex, del 1601. La paura avrebbe dovuto ammutolirli; loro, invece, procedettero direttamente a mandare in scena l’Amleto, infarcito di riferimenti obliqui all’intera faccenda, oltre che di rimpianto per il bel tempo andato, in cui le anime del purgatorio (il fantasma del padre) chiedono aiuto ai vivi. Sarà anche stato sostenuto da ambienti cattolici importanti, ma certo l’audacia di questo autore e della sua compagnia sono sorprendenti. Criptocattolico, dunque? Forse, ma dotato di una buona dose di coraggio.

Finché, nel 1610, Shakespeare fu pubblicamente accusato, nero su bianco, di essere stato in combutta con il nemico numero uno del regime, il gesuita Robert Persons. L’accusa non ebbe conseguenze penali ma non sarà stato per pura coincidenza, forse, che egli si ritirò dalle scene l’anno seguente, ricco e famoso, senza alcuna spiegazione.

Ma perché mai due anni dopo, quando ormai era tornato a Stratford a fare il proprietario terriero, fece il suo primo e unico acquisto di un costoso immobile a Londra per poi non abitarvi mai? E perché cedette quella porzione di palazzo, la Blackfriars Gatehouse, a un oscuro fittavolo (ricusante) per un prezzo simbolico? Tutto diventa molto più chiaro quando si scopre che il suddetto palazzo era un rifugio per sacerdoti e ricusanti braccati dal governo, i quali avrebbero potuto ripagarlo pregando per la sua anima. Magari proprio per questo Prospero, il protagonista della Tempesta, dopo aver auspicato di essere aiutato proprio dalla preghiera, si congeda dal suo pubblico augurandosi che la loro «indulgenza» lo «renda libero» (Temp, ep. 20).

I pettegolezzi non mollarono la presa neppure dopo la morte: a fine Seicento il reverendo anglicano Davies, lo stesso che addusse la caccia di frodo come motivo della fuga a Londra, dichiarò che Shakespeare «morì papista». Certo che morì papista: perché era rimasto tale per tutta la vita; nonostante i critici di tutto il Sette e l’Ottocento si siano fatti in quattro per lavare quell’onta dalla sua reputazione e per trasformarlo nel paladino del sistema, nel poeta nazionale della nascente Gran Bretagna, potenza sovranazionale e imperiale.

Con tutto questo, ben inteso, il «cuore del suo mistero» rimane, altrimenti non sarebbe Shakespeare. Ma molte tessere del puzzle scivolano al proprio posto, molti nodi vengono al pettine e ci mostrano un Bardo dell’Avon, paradossalmente, sempre più «romano» e meno «britannico».

 

 

 

 

 

 

 

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